Fonte: Corriere della Sera
di Franco Venturini
L’ipotesi di peace enforcing con migliaia di soldati a terra è un’ipotesi complessa e senza prevedibili vie d’uscita. Meglio dare un aiuto senza retorica e con poco rumore
Ora che il sangue italiano ci ha fatto entrare in casa una minaccia da tempo individuata e da tempo denunciata su queste colonne, diventa necessario compiere sul caso Libia una operazione chiarezza che militanze diverse e diverse retoriche hanno talvolta offuscato. Sulla natura dell’Isis e del suo tentativo di insediarsi stabilmente a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste non dovrebbero più esistere dubbi. Il suo radicalismo ideologico-religioso e la sua inaudita crudeltà sono noti, al pari delle sue iniziative terroristiche. Vanno aggiunti i contatti stabiliti dall’Isis con i jihadisti del Sinai, del Mali settentrionale e del sud dell’Algeria, con al Qaeda nel Sahel, con Boko Haram in Nigeria, con i Shabab in Somalia, nell’intento evidente di infiltrare buona parte dell’Africa. Si moltiplicano le indicazioni (le ultime ieri dal Marocco) sulla disponibilità da parte dell’Isis di armi chimiche e batteriologiche. La «rivincita sunnita» che l’Isis incarna in forma parossistica è forse in parziale arretramento in Siria e in Iraq, ma è di certo in espansione numerica e geografica in Libia e dintorni. E se si aggiunge che l’Italia ha da tutelare i suoi rifornimenti energetici, e deve prevenire ulteriori sfruttamenti dei flussi migratori, la conclusione, malgrado il comprensibile timore di rappresaglie, può essere una soltanto: l’Isis va fermato.
La questione tuttora irrisolta riguarda il «come». E qui l’Occidente, che come sempre si proclama unito, unito non è. Occorre partire dai pericoli strategici che un intervento comporta. Se i libici di tutte le bandiere sentissero violata dallo straniero la loro sovranità, molti finirebbero per ingrossare le fila dell’Isis. Un boomerang, il secondo dopo quello confezionato nel 2011. Da questa analisi praticamente unanime nascono due vie distinte. Una è quella percorsa con tenacia perfino eccessiva dall’Italia, in sintonia con la mediazione Onu: prima deve nascere un governo di unità nazionale, e soltanto dopo, in presenza di una legittimante richiesta d’aiuto, potranno partire missioni militari di supporto d’intesa con i libici, dunque non offensive verso la loro sovranità. Ineccepibile sulla carta, questo piano è ormai svuotato nella realtà. La tessitura diplomatica dura da un anno e mezzo, l’attuale governo unitario fatica ad essere ratificato persino dal parlamento «amico» di Tobruk e non saprebbe dove insediarsi, la sua base politica e militare in Libia è minima, in definitiva la sua nascita è diventata irrilevante. Perché se la richiesta di aiuto giungesse da un organismo così poco rappresentativo, servirebbe sul fronte interno di ogni Paese pronto a intervenire ma non in Libia.
La seconda via è quella seguita da Usa, Gran Bretagna e Francia. Questi tre governi auspicano come l’Italia e per gli stessi motivi la nascita di un governo libico unitario. Ma hanno da tempo preso le sue misure reali, e perciò hanno cercato e raggiunto accordi con i veri poteri libici anti Isis: milizie, tribù, autorità locali, brandelli di esercito, tutti purché libici e disposti ad accettare senza offesa l’appoggio di forze speciali ridotte ed efficaci. Che sono sul campo da parecchie settimane, e da Bengasi a Tripoli aiutano senza clamore chi combatte le forze del Califfato. Le «missioni segrete» concordate localmente con i libici sono destinate a moltiplicarsi, e l’Italia si prepara con ritardo a parteciparvi anche perché non sarà richiesto un voto del Parlamento e occorre dare contenuto al «ruolo guida» che abbiamo reclamato e a parole ottenuto.
Se davvero l’Italia si affiancherà con i suoi uomini alle forze speciali degli alleati, diventerà prezioso per stabilire nuove intese con i libici il lavoro fatto sul campo dai nostri Servizi. E troverà conferma il ruolo anch’esso prezioso svolto dalla Marina, mentre resta dubbio che l’Italia voglia partecipare a bombardamenti aerei. E se poi giungesse anche il governo unitario, tanto meglio. Ma il punto sul quale serve consenso è che non lo si può più aspettare, e dunque occorre dosare le modalità di intervento dedicandosi a una collaborazione con frammenti di Libia contro l’Isis. Una ipotesi di peace enforcing con migliaia di soldati a terra sarebbe tutt’altra storia. Una storia assai più complessa e senza prevedibili vie d’uscita. È preferibile aiutare i libici ad estirpare l’Isis, senza retorica e con poco rumore.