Fonte: Corriere della Sera
di Dario Di Vico
Ci sono almeno due buone tracce che ci spingono, pur nel bel mezzo di una situazione politica a tratti incandescente, a ragionare di giovani/anziani e dei conflitti di interesse che sembrano dividere le generazioni. Entrambe vengono dall’Istat, la prima la potremo catalogare sotto la voce «povertà», la seconda con l’etichetta «demografia». Tre giorni fa l’istituto di statistica riepilogando i dati 2018 ci ha comunicato che le famiglie giovani (quelle guidate da una persona compresa tra i 18 e i 34 anni) hanno insufficienti capacità di spesa e di risparmio e così cadono in stato di povertà assoluta nel 10,4% dei casi. Se invece prendiamo in esame i nuclei nei quali il capofamiglia ha superato i 64 anni di età il rischio indigenza cala drasticamente fino al 4,7%. Meno della metà. Ieri il nuovo presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo, presentando il rapporto annuale ci ha fornito una seconda e più robusta traccia. Il Paese delle culle vuote nel 2050 vedrà crescere la quota di ultra65enni — già oggi al 23% — di ulteriori 9-14 punti percentuali. Per effetto di questo invecchiamento verranno meno 6 milioni di persone in età di lavoro. Il riflesso sul nostro generoso welfare è angoscioso. Sostiene Blangiardo che oggi garantire un’assistenza dignitosa a quasi 14 milioni di ultra65enni è «ancora possibile», ma dobbiamo interrogarci se e come saremo in grado di soddisfare la stessa domanda di welfare quando gli anziani saranno saliti di altri 5 milioni di unità.
Le conseguenze politiche di questi scenari sono facilmente immaginabili: l’ago della bilancia nel rapporto tra politica ed elettorato penderà inevitabilmente dalla parte degli anziani (o, come suggerisce uno slittamento lessicale corrente, dei «tardo-adulti»). Saranno loro a possedere la golden share del consenso sia in termini quantitativi sia qualitativi per il ritardo cronico che il ricambio delle classi dirigenti segna nel nostro Paese. Aggiungiamo che anche il mondo della rappresentanza è sicuramente più vicino alle istanze delle pantere grigie che a quelle dei giovani e il quadro dei rapporti di forza è completo. La politica di domani sarà giocoforza «anzianista». Se niente sarà mutato nel frattempo rischiamo dunque di allargare il fossato di potere e di accesso alle risorse che già oggi ci vede disegnare — come segnalano i dati sulla povertà di cui sopra — il profilo di due distinte società. Pietro Ichino in passato, parlando delle difficoltà di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, era arrivato a utilizzare polemicamente il termine apartheid, che evoca contesti e società caratterizzate da drammatiche spaccature verticali. Nel nostro caso il confine che delimita i due campi è facile da individuare ed è rappresentato dall’abbinata di buone pensioni e welfare generoso che caratterizza la storia tutto sommato recente del Paese e che — seppur spesso ridicolizzata — qualche effetto lo ha prodotto se non altro in termini di allungamento dell’aspettativa di vita.
Chi contesta questa ricostruzione di carattere sociologico sottolinea invece una sorta di soft power di cui la «minoranza giovanile» godrebbe. Le attenzioni della famiglia, una mobilitazione di risorse che avviene tra generazioni consanguinee e persino un’egemonia culturale fatta di mode, linguaggi e tendenze. Ma l’impressione è che alla fine questo mazzo di carte non generi effetti consistenti sulla gerarchia sociale, anche perché l’unico soggetto che fa (piccola) redistribuzione è la famiglia (i soldi per aprire un negozio, il pagamento del mutuo) ma dal tinello di casa non si può aggredire l’immobilità sociale. I soldi del nonno raramente fanno ripartire l’ascensore. Persino nel campo delle competenze nativo-digitali, che dovrebbero rappresentare un jolly in mano ai giovani, non si riesce ad andare oltre il primato nella dimensione pratico-ludica, sicuramente non si riescono a influenzare le scelte delle imprese familiari e, men che mai, a cambiare i rapporti di forza intergenerazionali sul mercato. Con la sola eccezione, forse, di un settore di nicchia come il turismo, dove le opportunità delle piattaforme online consentono ai giovani di creare valore per le proprie famiglie sfruttando anche solo un primo livello di competenze digitali.
Per l’insieme di queste considerazioni bisogna riconoscere al presidente Blangiardo — designato dalla Lega e per questo bersagliato da qualche critica di troppo — di aver messo in agenda una priorità e una riflessione che stride con la cultura largamente prevalente tra gli azionisti di maggioranza del governo. Laddove, infatti, le scelte della politica hanno finora obbedito a una curvatura presentista l’Istat indica il medio-lungo periodo. Chiede implicitamente di programmare le scelte-Paese guardando addirittura ai dati del 2050. Molto oltre quindi il consenso delle urne prossime venture e l’aumento dei follower di Instagram. Molto oltre provvedimenti deboli (e contraddittori) come quota 100, reddito di cittadinanza e mini flat tax.