Fonte: Corriere della Sera
di Antonio Polito
Non c’è soltanto una «nuova Italia», sta anche nascendo una «nuova Europa»
Da un po’ l’Europa, un tempo così arcigna verso noi italiani, sembra essere diventata una potenza benigna. L’estate scorsa Berlino ha sconfitto le resistenze olandesi e nordiche per concederci la porzione più grande dei fondi per la ripresa; pochi giorni fa Bruxelles ha accettato in ventiquattr’ore le garanzie del nostro governo su come abbiamo deciso di spenderli, rimuovendo le obiezioni al piano; l’altro ieri Parigi ha finalmente accolto dopo decenni la richiesta di estradizione per i responsabili di gravi fatti di sangue negli anni di piombo. Che cosa succede? A che cosa si devono tanti successi italiani?
Si dice che il carisma personale di Mario Draghi e il rispetto di cui è circondato abbiano favorito e accelerato questo processo di upgrading del nostro Paese nelle gerarchie continentali. E sicuramente è vero. Aveva ragione Giancarlo Giorgetti quando si chiedeva come potessimo, nel pieno di una crisi storica, «lasciare in panchina il nostro uomo migliore». Ma la politica internazionale non è mai solo chimica e relazioni personali. Fattori più strutturali devono essere alla base di questa nuova fase.
Non c’è infatti solo una «nuova Italia» sulla scena internazionale; sta anche nascendo una «nuova Europa». I cui contorni sono ancora incerti, ma di certo diversi. Basterebbe dire che a settembre va in pensione Angela Merkel, l’autista del bus, l’autrice e l’interprete del progetto europeo da sedici anni a questa parte. Che Macron, l’altro navigatore, tra un anno ha le elezioni. Che non c’è più la Gran Bretagna. È dunque naturale che le grandi capitali si guardino intorno, cercando nuovi assetti e nuove alleanze. Ed è altrettanto naturale che in questo andirivieni Draghi abbia i tratti rassicuranti di un senior, potenziale perno di stabilità.
Ma c’è di più. In tutta Europa, e in Germania in particolare, si guarda al laboratorio italiano come a un esperimento continentale sull’affidabilità di governo delle forze populiste e sovraniste. L’impegno diretto della Lega nella gestione del piano europeo, e perfino segnali minori come l’astensione in aula di Fratelli d’Italia, sono considerati novità rassicuranti, anche in vista di una possibile futura vittoria elettorale di queste forze in un Paese fondatore dell’Unione. Chi ha a cuore il progetto europeo sta insomma scommettendo sul successo del governo di unità nazionale, il che ci rende decisamente più forti.
Nell’Europa retta dalle Regole, alcune decisamente «stupide» per usare un’antica espressione di Romano Prodi, eravamo condannati al fondo della classifica. Ma ora le regole sono sospese, e chissà per quanto, a causa della guerra contro la pandemia; e così la Politica si sta riprendendo la guida, come ai tempi della Guerra Fredda. L’austerità ci isolava, mentre l’interesse al «debito buono» ci accomuna. La Francia non ha meno bisogno di noi di cambiare il Patto di Stabilità, e cerca alleati per quando un homo novus, o piuttosto una donna nuova, prenderà possesso della Cancelleria a Berlino.
Ma è forse in corso una trasformazione anche più profonda, che riguarda il potere e il modo in cui viene percepito. In un libro appena pubblicato i sociologi Mauro Magatti e Monica Martinelli segnalano un ritorno al bisogno di «autorità», dopo il rifiuto che ha caratterizzato la sbornia individualista dei decenni passati. «Perché — scrivono — un mondo senza autorità non si regge, se non a costo di perdere la libertà, e con essa il senso». Ma già la teoria politica dell’antica Roma distingueva «autorità» da «potere», «auctoritas» da «potestas». Quest’ultima era affidata alla forza di coercizione di consoli e pretori, mentre la prima era la manifestazione di un sapere riconosciuto socialmente, che risiedeva nel Senato e nei giureconsulti. Oggi gli orgogliosi detentori del potere, se non addirittura dell’«imperium», avvertono piuttosto un senso di impotenza di fronte alla sfida mortale che la Natura e la Storia hanno messo di fronte ai loro Paesi. Sentono che la «potestas» non basta. Sanno che per quanta forza esercitino sono in balia delle bizze di un virus, un giorno nella polvere e un giorno sull’altare. Intuiscono che tutto il potere economico e tecnologico dell’Occidente rischia di essere vano se non riesce ad aiutare Paesi come l’India a disinnescare una potenziale bomba epidemiologica globale. È il tempo della saggezza, forse, più che del potere. Nessuno è più in una botte di ferro. Anche i vasi di coccio possono dire la loro.