19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

M5s e Lega: serve un periodo di decantazione

«Se il centrodestra sarà la prima coalizione e la Lega il primo partito del centrodestra, allora mi aspetto l’incarico da Mattarella», aveva detto Matteo Salvini pochi giorni prima del voto. Oggi, che entrambe le condizioni si sono realizzate, dice che a fare il presidente del Consiglio lui è «pronto». Ma aggiunge che «non dico mica “o io o morte”».
Luigi Di Maio, invece, è lo stesso Di Maio che il 10 gennaio, a Milano, presentava un progetto del M5S per l’abolizione di «quattrocento leggi inutili tra cui la Fornero». Sottolineando, con tanto di penna rossa, che «non siamo mica come Salvini, che ha rinnegato la volontà di cancellarla e si è venduto per qualche poltrona». Ed è lo stesso Salvini che ora, a sentire lo stesso Di Maio, non è più uno che rinnega o si vende per qualche poltrona. Al contrario, proprio sulle poltrone, s’è dimostrato «uno che sa mantenere la parola data e questa è una cosa rara».
Nulla di scandaloso. Uno dei protagonisti invisibili di settanta e passa anni di repubblica italiana — quel «generale tempo» che avvicina quello che all’apparenza pareva inavvicinabile — è pronto a risolvere l’ennesimo rebus dell’ennesima crisi. Un po’ come faceva quell’altro generale invisibile spesso evocato da Bettino Craxi, il «generale agosto», quando la voglia generalizzata di mare e vacanze riassestava in un battibaleno tutti gli scricchiolii politici del Pentapartito.
«Serve tempo», ripetono all’interno di Lega e Cinquestelle. Serve quel necessario periodo di «decantazione» di cui nei colloqui riservati parlano ormai tutti. Poi, come nella previsione generalizzata a cui dà voce l’ex parlamentare Peppino Calderisi — grande esperto di meccanismi parlamentari — «arriverà un governo di Salvini e Di Maio, taglierà qualche privilegio qua e là, farà qualche provvedimento sugli immigrati e si ritornerà tutti al voto». Senza la decantazione, tutto fallisce. Senza un tempo che smussi gli angoli, renda più sbiadite le promesse di reddito di cittadinanza e flat tax, senza un nome solo per Palazzo Chigi, tutto sarebbe prematuro. E quindi inutile.
La decantazione, la stessa che scandirà il tempo che manca a un nuovo esecutivo, fa parte del dna della storia repubblicana. Un mese e dieci giorni passarono dalla doppia vittoria di Dc e Pci alle elezioni del 1976 alla nascita del primo governo di solidarietà nazionale. Un mese trascorse dalle politiche del ’79 alla nascita del primo governo Cossiga. Un mese e mezzo servirono a Bettino Craxi per arrivare a Palazzo Chigi dopo il voto del 1983. Più di due mesi furono necessari a Enrico Letta per prendersi la campanella dalle mani di Mario Monti nel 2013, con in mezzo il tentativo fallito di Bersani coi M5S e la tormentata rielezione di Napolitano al Quirinale.
Dalla 1946 al 2011, lo censisce un aggiornamento al calcolo contenuto nello studio «L’instabilità politica nell’Italia repubblicana» di Guglielmo Negri e Luca Tentoni, l’Italia è stata ben per 2004 giorni senza un governo nel pieno delle sue funzioni. Sommati, sono più di cinque anni nella situazione attuale di Gentiloni, con governi in carica per il disbrigo degli affari correnti o prorogati. Dal momento delle sue prime dimissioni, per esempio, l’unico governo Dini rimase in vita per più di quattro mesi, con nuovi ministri — come il professor Mario Arcelli — che arrivavano a coprire i vuoti lasciati dai dimissionari. «Ci sono processi che hanno bisogno di tempo, di decantazione», dice Paolo Cirino Pomicino, ricordando il lavoro sotterrano che servì ad arrivare al primo presidente del Consiglio non diccì (Giovanni Spadolini) o alle lacerazioni che portarono al primo inquilino ex Pci (Massimo D’Alema) a Palazzo Chigi. E quel tempo, a volte, salva una vita. «Durante crisi di governo che si aprì dopo lo scontro tra Craxi e il Pri dopo Sigonella, decisi di andarmi a fare una coronarografia che non avrei mai fatto se non ci fosse stato lo stallo parlamentare. Scoprii che avevo il 95% del circolo coronarico chiuso e corsi in Texas a operarmi. Senza quella crisi, praticamente, sarei morto d’infarto alla Camera nell’arco di qualche settimane». Ma la Camera era ferma. Allora come oggi. E, allora come oggi, non per caso.

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