Un altro sistema elettorale (il proporzionale con sbarramento alla tedesca?) che consenta di render chiaro di fronte all’elettorato le differenze ideali e politiche su un punto così dirimente come la collocazione internazionale dell’Italia, sarebbe forse più onesto
Un nuovo «fattore Z» diventerà la discriminante della politica italiana, come il «fattore K» lo fu durante la Guerra Fredda? Allora una «conventio ad excludendum», implicita ma ferrea, impediva che al governo potesse mai andare il Pci, legato a Mosca e al blocco sovietico. Oggi un’analoga pregiudiziale potrebbe riguardare quelle forze che non sono disposte a schierarsi nella coalizione anti-Putin, o che addirittura aiutano più o meno apertamente l’autocrate di Mosca.
Non è un esito auspicabile per la democrazia italiana. Se le elezioni politiche del prossimo anno diventassero una riedizione del 18 aprile 1948, quando gli italiani furono chiamati a scegliere tra la libertà e i cosacchi a San Pietro, secondo l’immaginario anticomunista del tempo, sarebbe un salto all’indietro. In questo ha ragione Paolo Mieli, che ci ha messo sull’avviso da questo rischio di regressione. Oltretutto, senza il Piano Marshall e senza Pio XII, non è neanche detto che finirebbe allo stesso modo.È però indubitabile che una guerra, purtroppo «calda» del sangue di migliaia di vittime innocenti, è essa stessa un salto all’indietro, che di per sé ci ripiomba nel Novecento. Lo si vede già dai veleni di un vero e proprio scontro di civiltà che già circolano nell’opinione pubblica e nell’informazione in Italia; e dal fatto che importanti forze politiche appaiono disposte a farne uso per intossicare anche la vita politica democratica.
Angelo Panebianco ha descritto con grande lucidità sul Corriere come le piaghe degli anni Duemila, il terrorismo islamico, la crisi finanziaria, le grandi migrazioni verso l’Europa, la pandemia da Covid, e ora il ritorno della guerra, siano state vissute da una parte crescente dell’elettorato italiano come la conferma della fragilità e dell’inconcludenza dei sistemi democratici. O meglio: della «obsolescenza» del liberalismo, per usare le parole con cui Putin tre anni fa anticipò la via illiberale e imperiale che ha poi decisamente intrapreso.
Questo formarsi di un fronte che parteggia per le autocrazie contro le democrazie è un fenomeno alquanto indifferente anche alle smentite della storia. In fin dei conti, i due Stati-guida dell’autoritarismo, e cioè la Cina e la Russia, sono proprio in queste settimane alle prese con gravi insuccessi, veri e propri fallimenti della loro strategia di gestione della complessità. L’esportazione di una guerra coloniale da parte di Mosca e la dittatura sanitaria — quella sì — che tiene sotto custodia centinaia migliaia di cittadini cinesi, dovrebbero bastare a convincerci che le società aperte e democratiche hanno risorse e soluzioni, ideali e tecnologiche, superiori.
Ma discutere razionalmente di questo — come si è visto con i no vax — è davvero difficile di fronte al risentimento di una consistente fetta di pubblico che cerca, a destra o a sinistra, più una vendetta contro l’establishment che una soluzione ai problemi. Ciò vuol dire che questa opinione avrà un peso elettorale rilevante. È stato perciò notato che in entrambe le due possibili coalizioni in gara, quella di centrodestra e quella di centrosinistra, o «campo largo», o come altro si chiamerà, ci sarà in ogni caso almeno un’importante forza politica agitata da questi impulsi: nella Lega un tempo filo-Putin e ora incongruamente «pacifista», e tra i grillini, che con ipocrisia da azzegarbugli si dichiarano d’accordo a inviare armi per la difesa degli ucraini, ma non se sono in grado «di neutralizzare le postazioni dalle quali la Russia bombarda le città ucraine».
D’altra parte il grosso dell’elettorato voterà avendo in testa temi più vicini al suo portafogli, dal reddito ai bonus. E dunque la fondamentale opzione di politica estera di fronte alla quale la guerra di Putin ci ha messo, rischia di finire nascosta in due poli che fingono di essere d‘accordo sulla politica interna per prendere voti, ma sono assolutamente in disaccordo sul «fattore Z». Nelle condizioni attuali, un elettore di Giorgia Meloni, schierata con nettezza contro Putin, potrebbe trovarsi a dover votare nel maggioritario un Savoini o uno degli altri componenti della corrente Cremlino della Lega. E, allo stesso modo, un elettore del Pd potrebbe dover sostenere nel collegio un filo-cinese grillino.
Anche chi, come noi, è sempre stato a favore del maggioritario, perché aiuta l’elettore a scegliere la governabilità, si rende oggi conto che le coalizioni, già esistenti da tempo ormai solo come finzione, hanno ricevuto il colpo di grazia dal «fattore Z». Un altro sistema elettorale (il proporzionale con sbarramento alla tedesca?) che consenta invece di render chiaro di fronte all’elettorato le differenze ideali e politiche su un punto così dirimente come la collocazione internazionale dell’Italia, sarebbe forse più onesto; e renderebbe possibili alleanze tra forze diverse ma concordi sull’essenziale. Liberando il governo dal potere di veto dell’estrema, sia di quella che non pensa sia di quella che non ragiona.
Non è un esito auspicabile per la democrazia italiana. Se le elezioni politiche del prossimo anno diventassero una riedizione del 18 aprile 1948, quando gli italiani furono chiamati a scegliere tra la libertà e i cosacchi a San Pietro, secondo l’immaginario anticomunista del tempo, sarebbe un salto all’indietro. In questo ha ragione Paolo Mieli, che ci ha messo sull’avviso da questo rischio di regressione. Oltretutto, senza il Piano Marshall e senza Pio XII, non è neanche detto che finirebbe allo stesso modo.È però indubitabile che una guerra, purtroppo «calda» del sangue di migliaia di vittime innocenti, è essa stessa un salto all’indietro, che di per sé ci ripiomba nel Novecento. Lo si vede già dai veleni di un vero e proprio scontro di civiltà che già circolano nell’opinione pubblica e nell’informazione in Italia; e dal fatto che importanti forze politiche appaiono disposte a farne uso per intossicare anche la vita politica democratica.
Angelo Panebianco ha descritto con grande lucidità sul Corriere come le piaghe degli anni Duemila, il terrorismo islamico, la crisi finanziaria, le grandi migrazioni verso l’Europa, la pandemia da Covid, e ora il ritorno della guerra, siano state vissute da una parte crescente dell’elettorato italiano come la conferma della fragilità e dell’inconcludenza dei sistemi democratici. O meglio: della «obsolescenza» del liberalismo, per usare le parole con cui Putin tre anni fa anticipò la via illiberale e imperiale che ha poi decisamente intrapreso.
Questo formarsi di un fronte che parteggia per le autocrazie contro le democrazie è un fenomeno alquanto indifferente anche alle smentite della storia. In fin dei conti, i due Stati-guida dell’autoritarismo, e cioè la Cina e la Russia, sono proprio in queste settimane alle prese con gravi insuccessi, veri e propri fallimenti della loro strategia di gestione della complessità. L’esportazione di una guerra coloniale da parte di Mosca e la dittatura sanitaria — quella sì — che tiene sotto custodia centinaia migliaia di cittadini cinesi, dovrebbero bastare a convincerci che le società aperte e democratiche hanno risorse e soluzioni, ideali e tecnologiche, superiori.
Ma discutere razionalmente di questo — come si è visto con i no vax — è davvero difficile di fronte al risentimento di una consistente fetta di pubblico che cerca, a destra o a sinistra, più una vendetta contro l’establishment che una soluzione ai problemi. Ciò vuol dire che questa opinione avrà un peso elettorale rilevante. È stato perciò notato che in entrambe le due possibili coalizioni in gara, quella di centrodestra e quella di centrosinistra, o «campo largo», o come altro si chiamerà, ci sarà in ogni caso almeno un’importante forza politica agitata da questi impulsi: nella Lega un tempo filo-Putin e ora incongruamente «pacifista», e tra i grillini, che con ipocrisia da azzegarbugli si dichiarano d’accordo a inviare armi per la difesa degli ucraini, ma non se sono in grado «di neutralizzare le postazioni dalle quali la Russia bombarda le città ucraine».
D’altra parte il grosso dell’elettorato voterà avendo in testa temi più vicini al suo portafogli, dal reddito ai bonus. E dunque la fondamentale opzione di politica estera di fronte alla quale la guerra di Putin ci ha messo, rischia di finire nascosta in due poli che fingono di essere d‘accordo sulla politica interna per prendere voti, ma sono assolutamente in disaccordo sul «fattore Z». Nelle condizioni attuali, un elettore di Giorgia Meloni, schierata con nettezza contro Putin, potrebbe trovarsi a dover votare nel maggioritario un Savoini o uno degli altri componenti della corrente Cremlino della Lega. E, allo stesso modo, un elettore del Pd potrebbe dover sostenere nel collegio un filo-cinese grillino.
Anche chi, come noi, è sempre stato a favore del maggioritario, perché aiuta l’elettore a scegliere la governabilità, si rende oggi conto che le coalizioni, già esistenti da tempo ormai solo come finzione, hanno ricevuto il colpo di grazia dal «fattore Z». Un altro sistema elettorale (il proporzionale con sbarramento alla tedesca?) che consenta invece di render chiaro di fronte all’elettorato le differenze ideali e politiche su un punto così dirimente come la collocazione internazionale dell’Italia, sarebbe forse più onesto; e renderebbe possibili alleanze tra forze diverse ma concordi sull’essenziale. Liberando il governo dal potere di veto dell’estrema, sia di quella che non pensa sia di quella che non ragiona.