Fonte: Corriere della Sera
di Feruccio De Bortoli
Le nostre pensioni future si sono impoverite in questi mesi più di quanto non si possa temere. Siamo troppo concentrati sul drammatico presente della pandemia. Comprensibile ma non scusabile. Nella Nota aggiuntiva al Documento di economia e finanza (NaDef) abbiamo scoperto che la famosa gobba nel rapporto tra la spesa pensionistica e Prodotto interno lordo è diventata un lungo plateau, tanto per usare un termine ritornato purtroppo di moda. Non c’è un picco atteso, c’è un altopiano da scalare. Il rapporto tra spesa pensionistica e Pil raggiungerà il record del 17,1 per cento a fine 2020 — parliamo di 300 miliardi, colpa anche di quota 100 — e resterà intorno al 16 per cento per gli anni successivi. Nell’Eurozona è oggi mediamente al 13 per cento.
La boa del 2045
Comincerà a scendere in Italia solo nel 2045, quando ormai il sistema contributivo sarà generalizzato per ogni trattamento con tassi di sostituzione, rispetto all’ultima retribuzione, ancora più bassi. Solo fra un quarto di secolo, se andrà bene, vedremo ridursi il peso relativo della previdenza pubblica sulla ricchezza prodotta. Abbiamo costituito, complice la crisi, un’ipoteca sul futuro ancora più onerosa. Senza il minimo dibattito. Va così.
I dati
ltri dati dovrebbero farci riflettere. Il primo è il buco di 4,6 miliardi non versati nelle casse professionali. Quasi la metà — come scrivono su il Sole 24 Ore Antonello Cherchi, Flavia Landolfi e Valeria Uva — è causato dalla morosità di architetti, ingegneri e geometri. Unici senza problemi i notai (e ci mancherebbe altro). Un infermiere su quattro ha debiti arretrati (e forse potrebbero essere aiutati di più in questa rinnovata emergenza sanitaria). Le Casse hanno tutta la flessibilità per recuperare i mancati versamenti dei loro iscritti. Ma il «buco» si ripercuoterà fatalmente sui trattamenti futuri, immiserendoli. Nell’ultima relazione della Covip, l’Autorità di vigilanza del settore, di cui è presidente Mario Padula, è emerso che un quinto degli aderenti ai fondi pensioni non versa le proprie quote. Tanti sono ovviamente in difficoltà. Ma, proprio nei giorni scorsi, l’Abi, l’Associazione bancaria, ha comunicato che i depositi bancari sono cresciuti in settembre, rispetto a un anno prima, dell’8 per cento, al record storico di 1.682 miliardi. A meno che non stiamo parlando di mondi totalmente separati, non è escluso che non pochi iscritti ai fondi abbiano preferito scegliere la liquidità di un risparmio precauzionale – che non rende nulla – rispetto all’investimento sul proprio futuro pensionistico, persino nel primo e fondamentale pilastro, come nel caso della Casse.
Come se il futuro non esistesse
Tutto ciò è sintomo della profonda crisi economica che viviamo. Ma anche di un riflesso culturale che ci porta a considerare l’investimento sulla pensione, in particolare nel secondo e nel terzo pilastro, ovvero di categoria e individuale, come qualcosa di più facilmente rinunciabile, persino voluttuario. Come se il futuro non esistesse e non riguardasse quei giovani dei quali parliamo continuamente salvo poi tradirli con le nostre scelte concrete.
Un solo esempio: l’assicurazione long term care, che molti fondi pensione o prodotti individuali assicurano, è una risposta concreta alla tragica sofferenza di una generazione di anziani colpiti dalla pandemia. E sgraverebbe i giovani da futuri compiti di assistenza ai non autosufficienti che, in molti casi, tenendo conto poi dell’invecchiamento della popolazione, saranno semplicemente insostenibili.
La caduta del 20%
I fondi negoziali non hanno avuto, per ora, un calo di contribuzioni. L’estensione della cassa integrazione li ha per il momento salvaguardati. Ma che cosa accadrà quando finirà il blocco dei licenziamenti e assisteremo a probabili e dolorose ristrutturazioni aziendali? The European House Ambrosetti ha presentato nei giorni scorsi, insieme al fondo Perseo Sirio e a Hsbc Global Asset Management, un articolato studio sui fondi pensione coordinato da Lorenzo Tavazzi.
Il numero delle posizioni previdenziali integrative (oggi 9,1 milioni) è aumentato più velocemente dei contributi versati (15,9 miliardi). E non scontiamo ancora l’effetto Covid. La stima è di una caduta del 20 per cento. I tassi di adesione sono inferiori al 30 per cento. E sarebbe opportuno promuoverne la crescita. Non solo con un diverso trattamento fiscale, magari al momento dell’erogazione e non del versamento (basterebbe tornare all’11,5 per cento del 2015 quando fu alzato al 20) ma anche con un’opportuna campagna di informazione. «Chi ha più necessità di questi strumenti è chi meno li conosce», dice Tavazzi.
L’esempio dei dipendenti pubblici
Esemplare il caso dei dipendenti pubblici (3,24 milioni, 57 per cento donne, età media 50,6 anni) per i quali non esiste una formula del silenzio assenso ed è eccessiva la convinzione che lo Stato protegga sempre e comunque il benessere futuro dei propri dipendenti.
I fondi negoziali (31 in Assofondipensione, di cui è presidente Giovanni Maggi, 3,2 milioni di iscritti e un patrimonio di 56,1 miliardi) hanno avuto nel 2019 rendimenti tra il 7,2 e 12,2 per cento contro l’1,5 per cento del Tfr o Tfs e recuperato quasi tutte le perdite di inizio 2020. Sono investitori pazienti, di medio e lungo termine. Sono in grado di sostenere la crescita dimensionale delle aziende ma solo il 3 per cento del loro patrimonio è investito in Italia. Troppi limiti.
Il terzo pilastro
Nel cosiddetto terzo pilastro, ovvero quello dei prodotti individuali (fondi pensione aperti e piani individuali pensionistici o Pip) si è avuto, a giugno del 2020, un calo contenuto (del 2,3 per cento) delle contribuzioni, pari a 2 miliardi e 673 milioni. Anche in questo caso, al di là della non marginale questione dei costi e della trasparenza finale delle prestazioni, emerge la necessità di favorirne la sottoscrizione. Un’idea potrebbe essere quella di non limitare all’ambito familiare l’uso del plafond di deducibilità fiscale (5 mila 164 euro). L’esempio di un anziano che «adotti» un giovane precario aiutandolo per tempo a costruirsi una «pensione di riserva» avrebbe un grande valore sociale e intergenerazionale. Siamo un popolo generoso, possiamo dimostrarlo anche aiutando le esperienze lavorative di giovani al di fuori dei legami parentali.
Risparmio previdenziale come bene di prima necessità
«Il tema cruciale — sostiene Raffaele Agrusti, fondatore insieme a Giancarlo Scotti, entrambi ex Generali, di Propensione — non è solo quanto si avrà di pensione, del tasso di conversione che diminuisce con gli anni, ma quando la si potrà riscuotere. La crisi pandemica rende ancora più pericolosa ed esplosiva una bomba sociale che facciamo finta di non vedere. Gente che non avrà più il lavoro ma dovrà aspettare anni prima di andare in pensione. E che cosa farà? Dobbiamo abituarci a considerare il risparmio previdenziale un bene di prima necessità. I genitori comincino a farlo a favore dei figli appena nati, non aspettino. E le istituzioni promuovano campagne di informazione seria e documentata».
L’Inps aveva le cosiddette buste arancioni ma le ha (gesto significativo di una mentalità diffusa) tolte per risparmiare sulle spese postali. «Un caso straordinario — prosegue Agrusti — è quello della Provincia autonoma di Bolzano, che pochi anni dopo la legge sulla previdenza integrativa ha lanciato un piano casa condizionato alla sottoscrizione da parte dei richiedenti di un fondo pensione con almeno 15 mila euro già versati». Gli italiani amano molto la casa. La pensione è la casa del futuro.