22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

EU puzzle

di Antonio Polito

C’è qualcosa di estremamente fragile, nella inusitata durezza con cui Matteo Renzi ha preso ad attaccare i leader dell’Unione Europea. Una debolezza che forse avvertono anche i veri destinatari della filippica: gli elettori italiani. Non perché si possa obiettare qualcosa alla sostanza della critica che il nostro presidente del Consiglio rivolge al Consiglio europeo di cui fa parte, soprattutto sul tema dei migranti. L’Europa si sta riempiendo di muri, e gli unici che non possiamo alzarli siamo noi, circondati come siamo dal mare. I programmi di ricollocazione di chi chiede asilo non stanno funzionando. I propositi di rimpatrio di chi non ha diritto all’asilo, nemmeno. Ma se, in polemica con questo stato di cose, Renzi aggiunge che «l’Italia farà da sola, ha i mezzi per farlo», per aiutare l’Africa a frenare le partenze o per gestirle quando si trasformano in centinaia di migliaia di arrivi all’anno, chi può credere che questa sia una soluzione possibile? Chi può credere che possiamo farcela da soli? Si arriva qui a un nodo storico della politica estera italiana, all’idea che abbiamo del nostro posto nel mondo. Troppo piccoli per fare da soli, troppo grandi per stare al guinzaglio di qualcuno, finora era stata l’Europa unita a fornirci l’habitat ideale per le nostre ambizioni. Per questo gli italiani erano — fino a poco fa — i più europeisti d’Europa: ne vedevano la convenienza. Oggi che le cose sono cambiate, si pone quindi un enorme problema politico.
Se l’Unione Europea continua ad andare in pezzi, fino ad esaurire le sue risorse di azione comune, quale altra politica è possibile per l’Italia, ammesso che ce ne sia una? È una questione nazionale il cui aggravarsi non dipende certo solo da Renzi, che si è trovato a governare il Paese nel punto più basso della storia dell’Unione. Però anche Renzi deve porsela senza illusioni e soprattutto senza illudere gli italiani. Per esempio: ricordate le analisi secondo le quali l’uscita del Regno Unito avrebbe reso più forte l’Europa che restava, e maggiore il ruolo dell’Italia? Oppure le prefigurazioni di un nuovo direttorio a tre, con Roma alla pari di Berlino e Parigi? O la convinzione, espressa da Renzi appena una settimana prima di Bratislava, che Hollande era stato «finalmente conquistato» alla causa della lotta all’austerità?
All’origine di questi abbagli non c’è solo la fretta di dare buone notizie agli italiani, di mostrare loro che gareggiamo in una categoria di peso superiore al passato. C’è una analisi errata della condizione dell’Italia, che forse indebolisce l’azione riformatrice del governo anche nei confini nazionali. In una parola: il nostro Paese è in crisi oppure no? Il governo Renzi ci dice da due anni che no, non è più in crisi, che ha cominciato il percorso alla rovescia, verso la crescita dell’economia e del peso politico. Ma i nostri partner europei, in questo all’unisono con l’opinione pubblica interna, pensano invece che il nostro sia un Paese in crisi, in cui la ripresa dopo la grande recessione non è mai veramente cominciata, e che anzi vive col fiato sospeso per la paura che una nuova recessione sia in arrivo; un Paese comunque stagnante da quindici anni, quindi sempre più indebitato, quindi sempre più debole.
Per questo non basta aver ragione in Europa. Non basta commentare con la lucidità e il sarcasmo di un osservatore esterno ciò che non va in quel consesso. Si rischia anzi così di confermare — come scrive l’Economist — «la grande tradizione italiana di dare la colpa della disastrosa performance economica alle regole europee piuttosto che alla paralisi interna». Né bastano a risollevarci i deficit fatti di bonus o la tela di Penelope di riforme sempre in rifacimento (da ultimo, l’Italicum). Il peso dell’Italia in Europa dipende anche dalla portata e dal carattere strutturale della nostra crisi, che bisognerebbe riconoscere con un discorso di verità agli italiani, per potervi por mano con tutta l’energia e la durezza necessaria. Il paradosso della nostra situazione attuale è che mentre accusiamo l’Europa di debolezza, rischiamo di tornare ad esserne l’anello più debole.
P. S.: ci vorrebbe anche più umiltà. Qualche giorno fa Carlo Bastasin ha ricordato sul Sole 24 Ore che in frangenti come quelli di Bratislava sarebbe stato meglio avere un italiano a presiedere l’Unione e i suoi vertici, piuttosto del polacco Tusk, e che questa possibilità esisteva ed è stata persa due anni fa.

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