20 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Massimo Franco

Problema del governo: come evitare che la diarchia diventi dualismo. Rompicapo non facilmente risolvibile, perché in neanche tre settimane i rapporti di forza, o meglio la proiezione esterna dell’esecutivo, sembra essersi modificata. Il contratto continua a unire saldamente il leader del Movimento Cinque Stelle, Luigi Di Maio, e quello della Lega, Matteo Salvini. Ma il ruolo ministeriale che ricoprono, non quello di vicepresidenti del Consiglio, li sta distinguendo in modo imprevisto. La Lega salviniana che lievita nei sondaggi, sospinta dal pugno duro sull’immigrazione e sui rom, appanna i Cinque Stelle. La conseguenza è che nelle file del Movimento serpeggia la frustrazione, più ancora della divergenza su alcune proposte considerate troppo «d’ordine».
Quella che prima era vista come una pacifica e redditizia divisione del lavoro, ora sta assumendo i contorni della competizione. L’impressione è che nella cerchia di Luigi Di Maio si osservi la scalata da parte della Lega come un fatto non necessariamente negativo: anche perché il travaso avviene soprattutto all’interno del centrodestra, col progressivo dimagrimento di Forza Italia e l’assorbimento di fatto di Fratelli d’Italia. Per capirsi, l’elettorato del Movimento Cinque Stelle cala un po’ ma non viene cannibalizzato dall’alleato contrattuale. Il problema è quando si voterà. Il sospetto che il protagonismo di Salvini sia tutto in chiave elettorale aleggia, tra i seguaci di Di Maio e di Davide Casaleggio: sebbene lo scansino come una malignità altrui, alla quale si rifiutano di credere. La sensazione è che la forza principale del governo sia stata spiazzata dall’inizio fulminante e straripante di Salvini al Viminale. Lo ha assecondato, in prima battuta. Poi ha cominciato a intravedere il fantasma della subalternità. E il predominio dell’agenda leghista ha creato malumori in una base fin troppo eccitata dall’approdo governativo; gonfia di aspettative, e disposta a accettare la convivenza col Carroccio solo in omaggio alla realpolitik. Sono stati questi segnali di scontento, amplificati dal presidente grillino della Camera, Roberto Fico, interprete del tradizionale movimentismo «di sinistra», a scuotere i Cinque Stelle al governo. Forse, senza quegli altolà, Di Maio e i suoi ministri non si sarebbero mossi, soprattutto sul discutibile censimento sui rom proposto dal capo leghista. Sono tracce di una tensione strisciante, ma al momento destinata a essere contenuta e diplomatizzata: magari col premier Giuseppe Conte nel ruolo di mediatore. D’altronde, i Cinque Stelle ritengono di dover pagare un prezzo inevitabile alla propria inesperienza. E si rendono conto che le loro promesse ambiziose e mirabolanti di riforma, come il reddito di cittadinanza, sono costose e richiedono tempo. La voce grossa di Salvini sull’immigrazione, invece, ha un impatto immediato sull’opinione pubblica; e a costo zero. In più, i Cinque Stelle continuano a essere prigionieri di una visione solitaria dei rapporti con le altre formazioni politiche. E si ritrovano a affrontare l’inchiesta sul nuovo stadio della Roma, che rimette sotto riflettori impietosi la giunta grillina di Virginia Raggi. Al di là degli aspetti penali, ancora da provare, la vicenda è una fonte di imbarazzo e disorientamento anche per i vertici nazionali; e di strumentalizzazione da parte degli avversari. Il tentativo di metterle il silenziatore è evidente; la possibilità che riesca, tutta da verificare. Il futuro della diarchia al governo dipende non solo dall’ascesa di Salvini, ma dalla parabola del Movimento Cinque Stelle in Campidoglio.

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