22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Antonio Polito


Ci sono momenti che dicono più delle parole. Per esempio quando Giuseppe Conte ha finito il suo intervento ieri mattina a Montecitorio senza che un vero e convinto applauso si levasse dall’aula. Il logorio della seconda ondata scava inevitabilmente un solco tra il governo e l’opinione pubblica; ma anche tra il governo e la sua base parlamentare. La «guerra santa» dei Cinquestelle al Mes si è fermata prima di sparare il colpo che avrebbe potuto far cadere il governo, e con esso il Parlamento. La conservazione dello status quo è diventata la forza maggiore della legislatura. Però il premier non è uscito rafforzato dalla giornata di ieri. La sua maggioranza non si è allargata, non ha conquistato consensi nemmeno sul terreno dell’europeismo, che pure avrebbe potuto portare sostegni trasversali. Né si è ricompattata al suo interno, perché la fronda nel M5S ha lasciato un segno, e in più nel governo si è accesa quella di Renzi contro la «cabina di regia» che dovrebbe gestire i 209 miliardi del piano europeo. E infatti i voti favorevoli a Conte si sono fermati sia alla Camera sia al Senato sotto la soglia della maggioranza assoluta. Difficilmente oggi a Bruxelles il premier potrà vantare la saldezza e la stabilità che l’Europa si aspetta dall’Italia, e che è la vera missione del suo governo di qui in poi. Se i nostri partner si prenderanno poi la briga di leggere per intero la mozione di maggioranza approvata ieri, e che avrebbe potuto agevolmente essere titolata «Brevi cenni sull’universo», difficilmente troveranno nelle quattromila e cinquecento parole che la compongono una parola chiara e definitiva sulle questioni davvero sul tappeto: in Italia la lunghezza dei testi è direttamente proporzionale alla loro vaghezza. Si dirà: è politica. Ed è vero. Alla fine conta solo il risultato, e il governo è ancora in piedi. Ma è sul terreno, nel Paese reale, che deve dimostrare la sua forza. E anche lì soffre. La «discesa» annunciata dei contagi è così lenta che dura da settimane senza mai toccare il punto di svolta che tutti aspettiamo.
L’Italia sta confermando una percentuale di morti sulla popolazione tra le più alte al mondo, un mistero che gli scienziati non sanno spiegare ma che certo non milita a favore dell’efficienza del nostro sistema di prevenzione e cura. E ora l’incubo degli esperti del ministero è che la terza ondata (data ormai quasi per scontata) si accavalli con la campagna di vaccinazione nei primi mesi del prossimo anno, rendendola se possibile ancor più complicata dal punto di vista logistico e organizzativo. Allo stesso tempo non si è ancora aperta una finestra sul futuro, uno spiraglio da cui guardare con più fiducia al domani. Il «Next Generation Eu», il piano per la ripresa finanziato dall’Europa, a questo dovrebbe servire. Ma il governo, invece di utilizzarlo come occasione di un grande dibattito nazionale, aperto al Paese, alle parti sociali e anche alle opposizioni, è già finito nella strettoia di una discussione su chi deve gestire i fondi, ancor prima di sapere per che cosa verranno usati. L’impalcatura proposta da Conte al Consiglio dei ministri — sembra di capire senza averla prima discussa con i partiti, vista la reazione dei renziani — ha molti difetti di accentramento, ma ha il merito di capire che senza una tecnostruttura di grandi dimensioni e qualità noi non riusciremo a spendere tutti quei soldi. Usare i fondi europei richiede progetti, bandi di gare, certificazioni, rendiconti, audit. È un lavoro immane: basta chiedere alle numerose Regioni italiane che non ci sono mai riuscite.
Non vorremmo che finisca come di solito avviene, che cioè con qualche artificio contabile si usino quei fondi per completare cose già avviate, cambiando la fonte di finanziamento. In questo modo ridurremmo ancor di più l’impatto sulla crescita dell’intera operazione; visto che, come ha spiegato Federico Fubini sul Corriere, 80 dei miliardi verranno utilizzati per investimenti già previsti, per non accrescere il debito pubblico. Ma c’è un problema di merito che è ancora più preoccupante agli occhi dell’opinione pubblica. Questa crisi ci ha infatti detto di che cosa ha bisogno la nostra sanità: della medicina territoriale, la diga prima dell’ospedale che stavolta non ha tenuto. Ci servirebbero ambulatori ogni 10 mila abitanti, dove trovare medici, diagnostica, assistenti sociali, consultori, centri di salute mentale. Ci servirebbero 34 mila posti letto in strutture intermedie tra l’ospedale e la casa, dove poter ricevere cure che non hanno bisogno di pronto soccorsi e chirurgie. Ci servirebbe una assistenza domiciliare ai malati cronici, soprattutto anziani. Tutte queste cose non le diciamo noi, ma le abbiamo trovate scritte in un piano del ministero della Sanità che calcola in almeno 25 miliardi la spesa necessaria per rifare il nostro sistema di medicina territoriale ed evitare che crolli alla prossima emergenza. Nelle previsioni del Recovery plan, invece, i fondi stanziati complessivamente per la sanità sono meno della metà. C’è qualcosa che non va, e si vede. Che il governo sia rimasto in piedi è un bene. Che si metta a camminare, a ben altro passo, è la condizione perché ci resti.

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