Fonte: La Stampa
di Daniele Marini
Per quattro italiani su dieci si vive meglio fuori dai nostri confini Svizzera, Australia, Germania e Inghilterra le alternative preferite
Viviamo in un grande condominio globale. Le nuove tecnologie della comunicazione ci hanno spalancato le porte al mondo. Grazie alla tv prima e poi, soprattutto, a Internet possiamo vedere qualsiasi angolo del mondo, anche in tempo reale. Non esistono musei, spiagge, montagne che non possiamo visionare su uno schermo di computer o smartphone. Anzi, noi stessi contribuiamo con foto e video nei social network ad aumentare le possibilità di avvicinarci a territori e a realtà.
Se a questo aggiungiamo lo sviluppo dei mezzi di trasporto, possiamo comprendere come lo spazio e il tempo siano due dimensioni che si sono ristrette. Al punto che, paradossalmente, non ci servono più 80 giorni per fare il giro del mondo, ma potremmo realizzarlo in una giornata e stando a casa. Fra le conseguenze, c’è un aumento esponenziale delle nostre possibilità di comparazione, più o meno fondate. Assai più d’un tempo, grazie a un’esperienza vissuta direttamente o indirettamente grazie alla tecnologia o a quanto riportato da parenti e conoscenti, abbiamo la possibilità di confrontare il nostro modo di vivere con quello di altri. Possiamo paragonare il nostro contesto di vita con chi vive in realtà diverse. E costruire una rappresentazione, un’idea, fare un raffronto.
Ne deriva una sorta di classifica del nostro senso di appartenenza e sul «ben-vivere», dove collochiamo il nostro Paese rispetto ad altri. Spesso nelle discussioni private e nel dibattito pubblico si avverte un sentimento critico verso l’Italia, si guarda altrove come modelli di vita, di organizzazione statuale. Mancando un senso forte di identità nazionale, riteniamo che in altri Paesi le cose funzionino e si viva meglio. Non solo siamo afflitti da forme superficiali di «benaltrismo», per cui c’è sempre qualcos’altro di meglio e di più urgente da fare, e così nulla muta. Ma potremmo coniare il neologismo dell’«altrovismo»: nella vulgata pubblica e nei mezzi di comunicazione sembra prevalere l’esistenza di un luogo altro, dove le cose procedono meglio.
La fuga dei cervelli, i pensionati che vanno vivere all’estero, imprese che delocalizzano: fenomeni evidenziati come indicatori di un’Italia in declino. Senza nulla voler togliere alla problematicità di simili eventi, prevale davvero l’immagine di un Paese che è peggiore di altri? La ricerca (Community Media Research in collaborazione con Intesa Sanpaolo per «La Stampa») ha esplorato il «sentiment» su questi argomenti. Abbiamo proposto una lista di Paesi, chiedendo di esprimere l’opinione se, rispetto all’Italia, lì si vivesse meglio, peggio o nello stesso modo. Su otto nazioni, ben quattro ottengono una valutazione più lusinghiera: prevale la Svizzera (81,7%), seguita da Australia (72,1%), Germania (69,2%) e Gran Bretagna (51,0%).
Si tratta di nazioni che hanno la reputazione di essere efficienti e funzionali. Va sottolineato come la Gran Bretagna (15,8%) sia, in questo gruppo, la nazione che ottiene il punteggio più elevato fra quelle ritenute avere un livello peggiore di vita rispetto all’Italia. A questo si accoda un secondo gruppo di Paesi, in cui le condizioni generali risultano più simili all’Italia, come Francia (58,0%) e Spagna (57,7%). Gli Usa sono la nazione che polarizza maggiormente, in modo quasi eguale, l’opinione fra quanti ritengono si viva meglio (33,4%) o, all’opposto, peggio (29,7%) rispetto al nostro Paese. In questo caso le origine latine si fanno avvertire e ci accomunano, mentre gli Usa sono più divisivi nella percezione. Fanalino di coda troviamo la Tunisia, sicura meta per il turismo, ma non paragonabile al nostro livello di vita (87,9%).
Sommando le opzioni, possiamo individuare un indicatore di appartenenza da cui scaturiscono tre profili. Il gruppo prevalente è composto dai «cosmopoliti» (52,2%), quanti ritengono che negli altri Paesi si viva come in Italia, che le differenze non siano così radicali come si pensa: tutto il mondo è paese. Questo «sentiment» è avvertito maggiormente dalla componente maschile, al crescere dell’età e da chi risiede nel Centro-Nord.
Il secondo gruppo è rappresentato dagli «esterofili» (43,6%), chi ritiene che all’estero si stia meglio che in Italia. Va sottolineato come le donne, le generazioni più giovani, gli studenti e chi risiede nel Mezzogiorno si ritrovi maggiormente in questa opinione. Il terzo gruppo è quantitativamente marginale ed è rappresentato dagli «italiani Doc» (4,2%), quanti ritengono che in Italia si viva meglio.
Esce una rappresentazione dell’Italia forse meno sgangherata di quanto non emerga dalle cronache quotidiane e dall’immaginario collettivo. La possibilità (reale o virtuale che sia) di raffrontare altre realtà permette di soppesare meglio i pro e i contro della vita nelle altre nazioni. E di dare un giusto valore a dove viviamo. Nello stesso tempo, però, va sottolineato l’esistenza di un «altrovismo», dell’idea e dell’esperienza che in altri Paesi si viva meglio che in Italia. E ciò che non può non preoccupare è che l’opinione sia diffusa soprattutto fra le giovani generazioni, le donne e chi risiede nelle aree più svantaggiate. Perché non fare nulla per limitare questo «altrovismo» è sperperare le nostre ricchezze, offuscare il futuro dell’Italia.