È un po’ stucchevole, adesso, chiedersi se, in questo tempo di guerra, sia meglio o peggio avere alla presidenza di una commissione tanto delicata un putiniano o un anti-americano
Poco alla volta, ma sempre fingendo un certo tormento, i grillini negli anni hanno cambiato idea su quasi tutto: sulla democrazia diretta e sullo streaming (ricordate quella pagliacciata di cui fu vittima Pier Luigi Bersani nel 2013?), su Tav e Tap, sulle banche, sul limite del doppio mandato, sulla Rai (Giuseppe Conte si lamentò di non essere riuscito a lottizzare neppure un tigì), e naturalmente sulle auto blu (che spettacolo vederli arrivare sprofondati dentro i sedili in pelle, nascosti dai vetri oscurati).
Però, su molti temi di politica estera, i grillini continuano a portarsi dietro una dimensione antica, incerta, sempre un po’ in bilico, discussa, discutibile.
Nessuno stupore, quindi, per quanto il Movimento sembrava stesse progettando: e cioè sostituire alla guida della commissione Affari esteri del Senato un putiniano d’acciaio (e pure convinto filo-cinese) come Vito Petrocell i, con Gianluca Ferrara, che nel 2016 scrisse e si pubblicò (la casa editrice «Dissensi» è sua) un libro dal titolo L’impero del male (copertina con la bandiera americana e un sottotitolo per non lasciare dubbi: «I crimini nascosti da Truman a Trump»).
È un po’ stucchevole, adesso, chiedersi se, in questo tempo di guerra, sia meglio o peggio avere alla presidenza di una commissione tanto delicata un putiniano o un anti-americano. Niente, in politica, accade per caso. Provate a pensare ai silenzi di Beppe Grillo.
Tremendi.
Pelosissimi.
Da settimane, il fondatore del Movimento, sul suo Blog, ignora — ostentatamente — il conflitto in Ucraina. Parla d’altro: il prezzo del pollo, la bioeconomia, il reddito universale a Barbados.
Tragico impaccio?
O ci sfugge qualcosa?
L’Elevato (vabbé), nel tempo, ci ha più volte ripetuto: «C’è bisogno di uomini forti come Putin». Manlio Di Stefano, l’attuale sottosegretario agli Esteri, volò così a Mosca, ospite d’onore del congresso di Russia Unita, il partito di Putin. Non un semplice osservatore: piuttosto, un efferato militante. Urlava: «La Russia è circondata dalla Nato!». Lo staff del tiranno, prima incredulo, poi entusiasta. Come ricostruito da LaStampa fu perciò Di Stefano ad accompagnare Grillo dall’ambasciatore russo Sergey Razov, a Villa Abamelek, Roma, quartiere Monteverde. Quella mattina c’era anche Alessandro Di Battista.
Dibba ha sempre avuto il pallino della politica estera. Certo la vede un po’ a modo suo. Per dire: suggerì di trattare con l’Isis; convinse Luigi Di Maio a seguirlo in Francia per abbracciare i gilet gialli che avevano incendiato il centro di Parigi (poi Di Maio ha chiesto, pubblicamente, scusa); un’altra volta Dibba partì per il Centro America, s’era messo in testa di scrivere reportage, finì in Chiapas, ma alcuni zapatisti s’accorsero che il companero barbuto stava al governo con Salvini, e allora il povero Dibba fu costretto a fuggire; e poi l’altra sera era al teatro Sala Umberto di Roma per assistere allo spettacolo del professor Alessandro Orsini, perché capita che tra studiosi si sviluppi subito una stima reciproca.
Insomma c’è un grillismo che è sempre stato un po’ così. Petrocelli, legittimamente, protesta: «Mi cacciano dalla commissione Esteri perché sono filo-russo. Però lo ero anche nel 2018, quando ne assunsi la guida. E Conte, all’epoca premier, lo sapeva perfettamente».
Ma infatti anche Conte, in politica estera, non sai mai bene da che parte stia. Incalzato da Lilli Gruber a scegliere tra Marine Le Pen ed Emmanuel Macron, prima provò a eludere la domanda, quindi — messo alle strette — preferì non schierarsi (poi, mezz’ora dopo la vittoria di Macron, s’accodò mesto dicendo che «è importante non abbia vinto una destra xenofoba etc etc…», con la mano che aggiustava la pochette).