Se i ragazzi non stanno bene, se non sono felici delle loro imperfezioni, è l’intero nostro viaggio a perdere ogni direzione
Alla fine degli anni Novanta un gruppo punk californiano, gli Offspring, prese uno storico brano degli inglesi Who, registrato per la prima volta nel 1965, e ne rovesciò il titolo. The Kids Are Alright divenne The Kids Aren’t Alright. I ragazzi non stavano (più) bene. Il pezzo racconta il ritorno nel quartiere dell’infanzia: le strade che promettevano futuro sembrano ora distorte, incrinate. Tutto appare logoro, spezzato tra vite che si sono spente o richiuse su sé stesse. Potremmo tentare lo stesso percorso. Tornare anche noi dove siamo cresciuti, magari alla periferia di Milano, e scoprire che la piazza si è svuotata di voci, biciclette, elastici e corde, dei palloni che sfidavano i divieti volando oltre le ringhiere. La sensazione è di un’interruzione.
Dove sono finiti i bambini e le bambine delle piccole città nella città, i ragazzi e le ragazze che si incrociavano sciamando, fuori, insieme, fino all’ultima mezz’ora di luce? In questo inizio di 2023, due ricerche hanno provato a rispondere, scaricando numeri allarmanti in un unico tracciato di linee d’ombra che persistono e si allargano, fino a non venir più oltrepassate nel fluire della navigazione verso la maturità. La prima ricerca è l’indagine sui rischi connessi ai comportamenti giovanili, curata dai Centers for Disease Control and Prevention (qui il link al dossier), tra i più importanti organismi che monitorano la sanità pubblica negli Stati Uniti. Il 30 per cento delle intervistate, più colpite dei coetanei maschi, ammette di aver avuto «pensieri suicidi» nell’ultimo anno; il 60 dichiara di provare «sentimenti di tristezza e disperazione». La seconda arriva dall’Olanda. Dalle conversazioni con 6.200 persone, tra i 18 e i 75 anni, il Trimbos-instituut ha calcolato una percentuale di disturbi nella fascia più giovane che tocca il 44%, in crescita dal 2019. Secondo questa rilevazione, la pandemia ha fatto sì da acceleratore delle curve ma non è l’origine del malessere diffuso.
Alle radici dell’infelicità ci sarebbero tre cause principali, tra molte possibili e intrecciate. La prima è l’ansia da prestazione che mina la fiducia in sé di adolescenti stremati dalla chiamata collettiva a mostrarsi sempre allineati, aggiornati e popolari, visibili e riconosciuti. La seconda è l’«individualisation of society»: da qui deriva una grande solitudine proprio negli anni in cui il confronto con gli altri attiva le capacità di interazione e porta poi a un equilibrio adulto. C’è come una risacca: individui in formazione vengono sospinti verso relazioni virtuali che non superano mai il disagio/conforto della distanza, quell’area “remota” dove l’identità può essere semplicemente mimata. Una terza causa è l’acuirsi delle diseguaglianze, per cui si frantuma la convinzione – che salda alla base i gruppi di amici e amiche – di poter condividere sogni e traguardi.
Le spiegazioni si inseguono, i numeri sono impressionanti. Per alcuni studiosi esiste il pericolo di considerare ormai “normale” il disordine psichico: le emozioni che scaturiscono da fallimenti, delusioni, depressioni vengono spostate quasi in automatico verso una patologia. Neutralizzando così un’elaborazione più lenta, togliendo spazio alla ricerca di parole – anche nuove – per comunicare e condividere il male di vivere. È un punto controverso, ma l’appello resta unico. Quello a fermarsi e riflettere. Cominciando ad aiutare le famiglie e le scuole, sovrastate da un’onda già alta come un muro, un’onda che ci separa e respinge. Se i ragazzi non stanno bene, se non sono felici delle loro perfezioni/imperfezioni, se non credono di potersi salvare e poter essere salvati, è l’intero nostro viaggio comune a perdere senso e direzione.