20 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Fabrizio Roncone

Dai «gufi» di Renzi allo sfogo di Conte

Più che uno sfogo, un mantra, il vecchio mantra di certi premier italiani, quando il vento della politica gira e le previsioni danno burrasca.
Una mattina intera, tutti a leggerci e rileggerci la frase di Giuseppe Conte: «C’è un pezzo di Stato che sta remando contro il governo e le riforme».
Decodificato: non riesco a lavorare come vorrei perché mi remano contro frange di parlamentari nell’ombra e leader dal doppio sguardo, e poi ci sono le resistenze degli apparati burocratici dei ministeri, quelle lentezze appiccicose ed estenuanti, da un ufficio a una segreteria e ritorno, soltanto perché gli hai chiesto un parere e non te lo danno, oppure lo respingono, e se te lo danno, è sempre troppo tardi.
Non subito, come si fa di solito, ma con comodo, dopo pranzo, da Palazzo Chigi fanno sapere che comunque Conte quella frase «non l’ha mai pronunciata», senza però chiarire se l’abbia almeno pensata, o addirittura scritta. La cosa certa è che nello staff di Conte devono essersi ricordati di quanto il mantra della «remata contro» porti male, malissimo, anche se — per dire — uno dall’eloquio creativo come Matteo Renzi, ad un certo punto cercò pure di renderlo giornalisticamente croccante, introducendo la figura del «gufo». Fu un’ideona: a lui non remavano contro, semplicemente portavano sfortuna. Gufavano il premier. Seguirono titoloni e interviste, i renziani estasiati dalla genialata del capo, solo che l’invenzione retorica di stampo ornitologico non servì a risollevare le sorti governative del giglio che da magico era diventato tragico abbastanza subito, stremato e stressato dalla promessa fatta da Renzi poche ore dopo aver varcato il portone di Palazzo Chigi: «Faremo una riforma al mese».
Sappiamo tutti com’è finita. Anche se poi, ovviamente, è sempre colpa degli altri. Che — appunto — remano contro. Davvero: mai pronunciare questo mantra, mai.
E invece, nel 2006, ci cascò persino il Cavaliere, ancora nel pieno del suo splendore, Palazzo Grazioli aperto e ambito, la corte luccicante, lo champagne, il barboncino Dudù che saltava sui divani e atterrava sulle gambe di Denis Verdini, sporcandogli l’abito cucito a mano con una stoffa di seta misto cachemire fatta arrivare da Londra.
«Sì — disse Silvio Berlusconi — persino le mie tv mi remano contro. Solo il tigì di Emilio Fede mi sostiene» (anni dopo, avremmo capito anche il perché).

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