Pechino e Mosca hanno preso la strada del decoupling. E Stati Uniti e Unione europea sembrano prendere atto del nuovo scenario e prepararsi alla nuova fase di post-globalizzazione
Le cose interessanti accadono spesso ai margini dei grandi eventi. Inizialmente poco notate. Negli scorsi giorni di straordinaria attività diplomatica internazionale, i summit del G20 a Roma e della Cop26 a Glasgow hanno oscurato un accordo tra Stati Uniti e Unione europea foriero di una profonda trasformazione a livello globale: la presa d’atto da parte delle due sponde dell’Atlantico che il mondo corre verso la divisione in due blocchi e, allo stesso tempo, una spinta a questa tendenza. È il riconoscimento che quello che gli anglosassoni chiamano decoupling — cioè il disaccoppiamento tra la sfera economica, tecnologica, politica e ideologica cinese e quella dei Paesi democratici — ha preso velocità.
I fatti che segnalano questa tendenza, che può portare a un sistema di relazioni del tutto nuovo rispetto a quello degli scorsi decenni, sono numerosi. Ma l’accordo annunciato da Joe Biden e Ursula von der Leyen il 31 ottobre è un salto in avanti non solo nella risposta che l’Occidente intende dare alle sfide poste da Pechino: è anche un cambiamento di stagione nella globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta, multilaterale, finora guidata da considerazioni economiche e d’ora in poi limitata e ridisegnata da interessi di Stato e di potenza. L’accordo riguarda l’acciaio e l’alluminio. Washington e Bruxelles si impegnano a togliere tariffe agli scambi e a fermare i ricorsi alla Wto, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, che si erano aperti con la presidenza Trump. Invece di litigare, America ed Europa si alleano per limitare l’influenza cinese, grande produttrice di acciaio e alluminio. Ma questa è la parte in fondo meno rilevante.
Soprattutto, l’accordo commerciale, che al momento è temporaneo, dovrà diventare un Accordo Globale su Acciaio e Alluminio Sostenibili, come ha precisato la Commissione Ue. Biden è stato netto: l’intesa limiterà l’ingresso «di acciaio sporco (cioè prodotto da impianti a carbone, ndr) da Paesi come la Cina» e contrasterà il dumping effettuato da alcuni produttori (ancora una volta la Cina). Inoltre, Washington e Bruxelles inviteranno altre economie «like-minded», cioè che la pensano allo stesso modo, a unirsi al progetto. In una fase di penuria di acciaio sui mercati come l’attuale, mettere barriere all’import dalla Cina può sembrare volersi fare del male. Ma proprio questo dà il segno della determinazione transatlantica ad alzare una barriera con il gigante asiatico: nonostante il costo economico, si privilegia una scelta puramente geopolitica. Di più: la lotta ai cambiamenti climatici diventa elemento di scontro egemonico.
Legare il commercio internazionale a questioni come il clima, l’ambiente, i diritti umani e quelli sul lavoro è qualcosa che negli anni scorsi è stato da alcuni fatto in pratica ma è sempre stato fuori dal regime degli scambi garantito dalla Wto. Era un modo per tenere la politica, gli interessi nazionali e il protezionismo fuori dalle regole commerciali. Introdurle ora significa trasformare nella loro essenza le logiche che hanno governato la globalizzazione senza frontiere degli scorsi quarant’anni, puntare a un mondo nel quale non è più il puro interesse economico a muovere le cose ma le volontà degli Stati. Al punto che un interesse comune, cioè la limitazione del riscaldamento globale, diventa occasione di divisione. Si prende atto che si è aperto un golfo tra Occidente e Cina, meglio ancora tra due blocchi che sembrano in formazione, quello delle democrazie a libero mercato e quello che vede alleati sempre più stretti Pechino e Mosca. Quando Mario Draghi fa l’elogio del multilateralismo, ha probabilmente in mente questa tendenza e i rischi che comporta per un Paese come l’Italia.
L’assenza fisica congiunta di Xi Jinping e di Vladimir Putin dal G20 e dalla Cop26, importanti primi summit in presenza dall’inizio della pandemia, è stata letta da molti osservatori come un segnale del fatto che Pechino e Mosca hanno preso la strada del decoupling anche in politica. Dopo gli anni nei quali si è ritenuto che fossero gli Usa di Donald Trump a volere il disaccoppiamento dalla Cina, è ora il gigante asiatico a dare segnali in quella direzione. La stretta sulle imprese private effettuata nel 2021 da Xi spinge molti investitori esteri a riconsiderare i rischi di un Paese nel quale il governo prende decisioni improvvise e inattese, creando grande incertezza. I gruppi che non possono operare in Cina non sono solo più Facebook, Google, Amazon, ora si sono aggiunte LinkedIn e Yahoo. Alcune multinazionali portano certe attività fuori dal Paese. Il fatto stesso che la Cina sia di fatto chiusa da quando la Covid-19 si è rivelata a Wuhan rafforza questa idea di scelta di isolamento, magari selettivo, non totale, in alcuni settori e in certe attività.
Sul versante occidentale, il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione nella quale si chiede una strategia Ue per la connettività e il Senato Usa ha votato lo Strategic Competition Act: entrambi hanno l’obiettivo di promuovere nell’Eurasia e in Africa infrastrutture alternative a quelle della Nuova Via della Seta cinese. Connettività competitiva. In parallelo, il rafforzamento militare di Pechino è rapidissimo e crea a Washington timori con pochi precedenti dalla caduta dell’Unione Sovietica. Henry Kissinger sostiene che «la sfrenata competizione» tra Usa e Cina «non ha precedenti nella storia».
Stati Uniti e Unione europea sembrano ora prendere atto del nuovo mondo e prepararsi alla nuova fase di post-globalizzazione. E forse di divisione almeno parziale in due blocchi. Dietro ai vertici di Roma e Glasgow c’è stato e c’è molto di più di quel che si vede.