19 Settembre 2024
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Al G20 non si poteva fare di più. Ora è tempo di pensare a come snellire le regole e verificare il rispetto degli impegni

Ha ragione Mario Draghi a considerare un successo il risultato del G20 di Roma presieduto dall’Italia, anche se su vari punti ci si è dovuti fermare al di sotto degli obiettivi iniziali. Le conclusioni della riunione dei capi di Stato e di governo dei principali Paesi del mondo, predisposte dagli infaticabili sherpa, fanno stato di qualche intesa significativa, non scontata. In particolare, per la prima volta un documento ufficiale del G20 fissa l’impegno comune a contenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi, mentre sui tempi per l’azzeramento delle emissioni nocive non si è potuto andare oltre una formula blanda (“alla o intorno alla metà del secolo”) anziché concordare la scadenza, più stringente, del 2050. Né si è riusciti a dire qualcosa più vincolante di “quanto prima” in tema di abbandono dei finanziamenti al carbone.
Su altri passaggi cruciali sono legittime analoghe riserve, ad esempio sulla modestia o la vaghezza degli interventi a favore dei Paesi più poveri, per la transizione energetica come per la campagna di vaccinazione anti-Covid. Il Segretario Generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha dato voce a un sentimento diffuso al termine dei lavori: l’esito del vertice va salutato con favore, le speranze non si sono realizzate, ma almeno non sono sepolte.
In realtà non si poteva fare di più e la soddisfazione del governo italiano è giustificata, considerando anche l’eccellente organizzazione logistica e il successo d’immagine riflesso nei commenti di leader e organi di informazione internazionali. Certo, mancavano i massimi rappresentanti di Cina e Russia purtroppo arroccati su un arrogante rifiuto, ma il metodo multilaterale ha comunque rimesso in luce i suoi meriti. Sempre meglio confrontarsi intorno a un tavolo che irrigidirsi in rivendicazioni a distanza. Ben venga una rinnovata disponibilità a ricercare soluzioni comuni a problemi globali. È quasi superfluo ripeterlo, specie per un Paese come l’Italia, che per la tutela dei propri interessi ben poco avrebbe da guadagnare da un approccio diverso. E tuttavia resta da chiedersi se sia solo questa la strada da percorrere o se esista qualche correttivo per rendere il cammino meno tortuoso.
Il giusto sostegno al metodo multilaterale non dovrebbe risolversi in una sua beatificazione a prescindere. Il suo funzionamento efficace presuppone alcune condizioni essenziali, difficili da realizzare. Una dozzina d’anni fa il G20 nacque come foro di consultazione tra i Paesi più ricchi del mondo sugli effetti della crisi finanziaria e sui possibili antidoti. Gli scambi avvenivano su una base ad hoc, in assenza di particolari procedure o strutture di raccordo. L’iniziativa era sostanzialmente affidata al Paese che a rotazione esercitava la presidenza del Gruppo e le determinazioni dei partecipanti costituivano soltanto raccomandazioni di principio, non indicazioni vincolanti. Le decisioni si adottano a consenso, ciascuno può opporre un veto e la tendenza verso il minimo comune denominatore per non turbare nessuno è alquanto evidente.
Per questo, senza uno snellimento delle regole e una verifica dell’adempimento degli impegni, è difficile disporre di un meccanismo di funzionamento incisivo. D’altra parte in un gruppo di Paesi così diversi tra loro, ciascuno dei quali entra nell’arena con un pesante condizionamento della propria agenda nazionale, è naturale che consapevolezza della posta in gioco e impegno solidale lascino il tempo che trovano. Oggi il G20 non parla più solo di finanza, spazia dall’economia all’energia, dalla salute allo sviluppo, dal clima all’agricoltura e altro; il suo ordine del giorno assomiglia all’indice della Treccani e gli sherpa si perdono in un mare di interessi contrapposti.
Se è giusto rivalutare il metodo multilaterale, renderlo davvero più efficace, è necessario anche attrezzarlo di nuovi strumenti, altrimenti si rischia di ridurlo a un esercizio declaratorio. Ma da dove cominciare? L’impresa è estremamente complicata, né si vede chi ci si possa cimentare in un mondo frammentato, confuso e diffidente. Intanto, se almeno l’Europa riuscisse a superare le sue divisioni e a presentarsi in campo con obiettivi e richieste comuni, forse non aiuterebbe solo i suoi membri ma spingerebbe anche gli altri grandi attori globali a uscire dallo stallo che penalizza tutti.

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