Se la cavano meglio le democrazie nelle quali alle contese sulle questioni interne non si sovrappongono dissensi radicali sulle alleanze e sulla collocazione internazionale
Fuoriuscitismo. È una parola antica che — usata in senso metaforico — aiuta a capire le difficoltà del presente, gli ostacoli che rendono sempre così perigliosa la navigazione del Paese, la sua collocazione internazionale. Illumina persino cose attualissime come le divisioni sugli aiuti all’Ucraina. L’espressione è stata utilizzata in passato per indicare l’attività degli antifascisti riparati all’estero ai tempi del regime. Ma qui non è riferita alle lotte contro la dittatura. In età medievale il fuoriuscitismo era quel fenomeno per cui, in tanti Comuni italiani, i membri della fazione perdente scappavano o venivano esiliati, si alleavano alle città nemiche della propria e la combattevano sperando di riconquistarla. Il fuoriuscitismo era sia un sintomo che una delle cause della perenne instabilità di diversi Comuni del centro-nord della Penisola. C’è un legame con l’oggi. In età repubblicana, fuoriuscitismo diventa un’utile metafora per indicare i legami di questo o quel partito con potenze esterne, al di fuori delle alleanze ufficiali del Paese, al fine di condizionarne la vita politica. All’epoca della Guerra fredda l’Italia ebbe il più forte partito comunista d’Occidente: la fazione perdente, con largo seguito nel Paese, era organicamente legata all’Urss, ossia al nemico ufficiale della Repubblica.
Era la causa di tante ambiguità ed equilibrismi che caratterizzavano la politica estera italiana, allora a guida democristiana. Anche per un Paese della Nato era impossibile non tenere conto del fatto che una fetta ampia dell’elettorato votava stabilmente per l’alleato del nemico.
Nonostante il grado acutissimo di polarizzazione che divideva il Paese in quel periodo, la variante aggiornata del fuoriuscitismo non ebbe corso all’epoca dell’alternanza fra i governi Berlusconi e i governi Prodi. In politica estera, le differenze fra i due schieramenti, se c’erano, erano più di stile che di contenuto. C’era convergenza sulla collocazione internazionale dell’Italia. La causa va cercata nel contesto internazionale dell’epoca. Era il «momento unipolare». Vinta la Guerra fredda, gli Stati Uniti erano al massimo della loro potenza e del loro prestigio. Quasi nessuno in Italia poteva più mettere in discussione (per lo meno, apertamente) l’appartenenza occidentale del Paese nonché la necessità di rafforzare la «gamba europea» dell’Occidente, di favorire l’integrazione europea. L’orientamento filo-occidentale era dominante nel Paese prima ancora che nella classe politica.
Nel primo decennio del XXI secolo si consuma l’epoca unipolare (con le divisioni sulla guerra in Iraq del 2003 e, ancor più,con la crisi economico-finanziaria iniziata negli anni 2007-2008) e in Italia si riaffacciano le tradizionali divisioni sulla nostra collocazione internazionale. Riemerge lentamente il fuoriuscitismo aggiornato e adattato ai tempi. Già nelle elezioni del 2013 (successo dei 5 Stelle) ma ancor più in quelle del 2018. Il governo giallo-verde (5 Stelle più Lega), pur negandolo formalmente, mostra la volontà di cambiare cavallo, di cercare nuovi referenti internazionali (firma dell’accordo con la Cina sulla Via della Seta, intensificazione di contatti e legami con politici russi). C’è chi mette in discussione persino la moneta unica. Anche nell’opposizione di allora (quella parte della destra che non ha seguito la Lega nell’alleanza con i 5 Stelle), si fa strada l’antieuropeismo, si diffondono le simpatie per i partiti e i movimenti antieuropei. Una parte maggioritaria del Paese, stando ai sondaggi, è ancora filo-occidentale e filo-europea ma all’interno della classe politica le divisioni, si tratti di Nato o di Europa, diventano assai forti. E alle divisioni corrispondono differenti potenze esterne di riferimento.
Mes, aiuti all’Ucraina: le fratture entro la classe politica rispettano la tradizione. È la condanna italiana: le alleanze — al governo come all’opposizione — si devono fare, per necessità, fra partiti che non hanno nemmeno il requisito minimo di una visione convergente sulla collocazione internazionale del Paese. Se non fosse perché Giorgia Meloni, andando al governo, ha realisticamente ripudiato gran parte delle sue posizioni sull’Europa dei tempi dell’opposizione, oggi il Paese sarebbe allo sbando, in balia di divisioni radicali fra attori politici con legami internazionali fra loro antitetici. Essendo una leader energica Meloni riuscirà forse a imporre alla sua maggioranza un compromesso accettabile sul Mes e continuerà a costringere anche i più recalcitranti fra i suoi alleati a non mettere in discussione il nostro sostegno all’Ucraina. Ma, per l’appunto, è necessaria, ora come in futuro, una grande energia. Nell’opposizione, mancando il collante che è dato dalla condivisione del potere, sia sul Mes (e quindi sull’Europa) sia sulla guerra in Ucraina (e quindi sulla Nato) le divaricazioni sono altrettanto forti.
È un effetto della democrazia? Tutto ciò è semplicemente una sana dimostrazione di pluralismo? Non proprio. Indubbiamente se la cavano meglio quelle democrazie nelle quali alle contese sulle questioni interne non si sovrappongono dissensi radicali sulle alleanze e sulla collocazione internazionale. E dove, per conseguenza, nessuno o quasi sfrutta le divisioni sulla politica estera ai fini della competizione interna.
Certamente, siamo in una fase in cui divisioni radicali sulla politica internazionale riguardano molte democrazie. Si pensi alla Francia di Macron o a ciò che è accaduto in Gran Bretagna con la Brexit e le sue conseguenze. Ma è anche vero che poi ciascun Paese ha le sue tradizioni e le sue specificità. Se hanno ragione coloro che pensano che siamo ormai entrati in un mondo multipolare, con tante grandi e medie potenze che contano e competono fra loro sul piano globale e su quello regionale, una democrazia come la nostra, con le nostre tradizioni, corre serissimi rischi. Il principale è che la nostra frammentazione politica, il nostro multipartitismo esasperato, sia sfruttato — ancor più di quanto sia fino ad oggi accaduto — da qualunque potenza abbia interesse a influenzare le scelte italiane. Ne seguirebbe una situazione per cui diversi nostri partiti, o correnti di partito, diventerebbero i referenti (i clienti) di una pluralità di grandi e medie potenze. Rendendo l’Italia incapace di perseguire i propri interessi nazionali. Logorando, nel lungo periodo, la stessa democrazia. Individuare in tempo i pericoli, può aiutare, qualche volta, a prevenirli.