23 Novembre 2024

Fonte: La Repubblica

di Fabio Scuto

I bossoli vuoti tappezzano l’asfalto, i copertoni sono in fiamme. Cocci di bottiglie molotov, pietre, barricate. Un fumo acre avvolge con le sue spire l’abitato che si avvita verso la sommità della collina dove svetta la Basilica della Natività. Solo la Piazza della Mangiatoia è stata risparmiata in questi tre mesi di violenze nella Cisgiordania occupata e in Israele. Il Natale di Betlemme è un Natale di guerra e lutto.

Con discrezione i Tanzim, il braccio armato di Fatah, autonomo dall’organizzazione-madre, ha sollecitato tutti i sindaci palestinesi a sospendere i preparativi natalizi. «Non c’è niente da festeggiare », hanno fatto sapere anche al Consiglio delle Chiese Cristiane. Così le celebrazioni sono state cancellate, da Ramallah a Hebron. Albero e presepe ci sono solo a Betlemme. L’Intifada al Aqsa — quella lanciata tre mesi fa per “difendere” la Spianata delle Moschee — finisce per essere l’unico segno di identità palestinese. La minoranza cristiana si prepara a un Natale minacciato, a cui è stato sottratto ogni senso di gioia e di festa.

L’abete sulla Piazza della Mangiatoia di Betlemme è imponente, ma non ci saranno altri festeggiamenti pubblici, fatta salva la messa del 24. «Non possiamo dimenticare ciò che sta succedendo », dice padre Jamal Khader, il rettore del Patriarcato latino che normalmente organizza le celebrazioni a Betlemme, «qui si sta perdendo la speranza in un futuro di pace». In condizioni “normali” le celebrazioni sono una grande attrazione turistica che richiamano decine di migliaia di persone. Ma per quest’anno le previsioni sono fosche. Nessun addobbo per le strade, niente luci , nemmeno i tradizionali fuochi di artificio. Cancellato anche il Concerto di Natale che il tenore Andrea Bocelli voleva tenere in Piazza.

La guerriglia urbana, quel senso di disagio e di minaccia che si avverte per le strade, terrà lontano turisti e pellegrini molto più che negli anni passati. Sarà anche un momento di riflessione difficile per i cristiani palestinesi, il loro numero è precipitato. Molti sono emigrati, specie in Cile, altri si stanno organizzando.

«Siamo in una situazione molto critica», dice Vera Baboun, sindaco cristiano di una città a maggioranza musulmana, «ma celebrare il Natale era un dovere di Betlemme». Ha dovuto insistere molto, perché il messaggio iniziale dei “duri e puri” era stato: niente albero a Betlemme, con l’intifada in corso non c’è niente da celebrare.

Il borgo che nessuno conosceva fino a 2015 anni fa, da sette anni è circondato dal Muro di sicurezza costruito da Israele. I turisti che vogliono visitare la città sono costretti lunghe code ai check-point israeliani per i controlli, mentre gli abitanti di Betlemme che vanno in senso opposto hanno bisogno di un permesso di lavoro, raramente concesso, per andare a Gerusalemme, distante appena dieci chilometri. La città ha perso gran parte del suo territorio grazie agli insediamenti israeliani di Har Homa e Gilo, dei terreni un tempo proprietà di famiglie cristiane della città ne restano solo il 12 per cento. Due terzi del Governatorato di Betlemme è zona militare, off-limits per i palestinesi. La città è un ghetto perché il Muro pieno di torri di guardia è dentro l’abitato, lo violenta, lo soffoca. Separati dalle loro campagne, i concittadini di Cristo vivono quasi solo di turismo. Ma da ottobre, quando sono iniziate le violenze nelle quali sono rimasti uccisi 125 palestinesi e 22 israeliani, le presenze di visitatori e pellegrini sono precipitate. I negozi di souvenir con le statuette della Vergine Maria e i presepi scolpiti nel legno d’ulivo, sono deserti.

Non va meglio negli alberghi, i telefoni squillano solo per annunciare nuove cancellazioni. Lo storico “Jacir Palace Hotel”, palazzo secolare in pietra bianca, è famoso per le sue arcate e i balconi in ferro battuto. Ma dopo tre mesi passati ad assorbire pietre, candelotti lacrimogeni, proiettili di gomma e quelli veri, la facciata non ha più un vetro sano. A ridosso del Muro, la strada antistante l’hotel è ogni giorno un campo di battaglia e quando i palestinesi si scontrano con le truppe israeliane fuori, gli ospiti devono usare l’ingresso posteriore per schivare pietrate e gas lacrimogeni. Nelle scorse settimane uno dei camerieri è stato ucciso sulla porta dell’hotel. Le sue 250 stanze sono quasi sempre vuote.

Vista la situazione, il vero “miracolo” è che i cristiani decidono di rimanere a Betlemme. Anche se le gang di ragazzetti islamici riempiono la comunità di angherie, minacce, piccole violenze. «Non mi interessa quanti sono i cristiani rimasti a vivere qui», dice ancora Padre Khader, «ciò che conta è quello che stanno facendo: è una comunità attiva della società palestinese». Il cristiano avverte qui però un disagio del vivere che entra dentro silenzioso come un virus. Le manifestazioni di gioia del Natale della festa danno ai cristiani un senso di appartenenza a questa Terra, che non sarebbe completa senza di loro. E non sarebbe completa nemmeno per noi Occidentali. Perché le radici della nostra civiltà — qualunque sia il credo — affondano qui, in questa città che è una prigione a cielo aperto. Buon Natale da Betlemme.

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