Fonte: La Stampa
di Daniele Marini
Alcune imprese sono diventate globali e vedono Roma come un freno. Altre non si sono innovate e sono soffocate dalla concorrenza
In-sofferente. È il filo rosso che accomuna le condizioni e i sentimenti del Nord del Paese. L’in-sofferenza (col trattino) riverbera, nello stesso tempo, situazioni contrapposte e solo apparentemente paradossali. Essa racchiude il malumore verso un sistema statuale, burocratico e fiscale ritenuto inadeguato a reggere le sfide che una competizione internazionale impone. Riforme promesse e mai giunte a compimento, livelli di tassazione ancora assai onerosi, infrastrutture inadeguate rappresentano un fardello pesante sulle spalle di un pezzo del sistema produttivo proiettato sui mercati internazionali. Imprese che prima e durante la crisi hanno continuato a investire in processi di innovazione e di internazionalizzazione, e che cominciano a raccogliere i frutti dei loro sforzi. I dati sono lì a confermare la bontà delle performance: secondo Unioncamere Veneto la produzione industriale nel quarto trimestre del 2017, rispetto allo stesso periodo del 2016, si assesta a +6,3%, con esiti ancora migliori per le Pmi. Per Unioncamere Lombardia, nel medesimo intervallo di tempo, è cresciuta del 5%. E sono solo gli ultimi di una serie positiva che dura ormai da diversi trimestri. Per non dire dei distretti industriali: anch’essi hanno subito un processo di metamorfosi, riorganizzando la propria struttura interna e diventando oggi “dis-larghi” ovvero filiere produttive che hanno allungato le loro reti di fornitura ben oltre i confini territoriali e nazionali.
Il freno politico
Queste imprese, i loro fornitori e gli stessi lavoratori lì occupati costituiscono un reticolo di realtà che ha accelerato, sta abbracciando le tecnologie della quarta rivoluzione industriale, si confronta con i mercati più avanzati. Auspicherebbero un sistema Paese capace di sostenere il loro sforzo di innovazione, le loro proiezioni all’estero, ma non lo vedono all’orizzonte. In questo senso, manifestano una “insofferenza” verso un’Italia (politica) incapace di riformarsi, di tenere il passo con la velocità dei cambiamenti. Ritengono di avere un ruolo di traino economico per il Paese (69,6%), ma di contare assai poco nella sfera politica (30,1%). Come ha dimostrato il referendum consultivo dello scorso dicembre, vogliono maggiore autonomia rispetto a un centro ritenuto inefficiente. È la parte del Paese che morde il freno, mentre vorrebbe poter correre più velocemente.
I piccoli esclusi
Ma, come sempre accade, il dato medio nasconde situazioni molto diverse fra loro. Un’altra parte del sistema imprenditoriale non è riuscita o non ha potuto accelerare. E continua ad essere “in-sofferenza”. Sono le realtà aziendali più piccole, non inserite nelle filiere internazionali, che operano sui mercati domestici o non hanno avviato processi di innovazione. Sono i lavoratori che hanno perso il posto di lavoro perché le aziende hanno delocalizzato o hanno chiuso i battenti. Sono tutti quei piccoli risparmiatori, artigiani e commercianti che hanno visto andare in fumo i loro risparmi e investimenti con il crollo delle banche popolari. In questi casi, la crisi continua a mordere e le ferite, profonde, non si sono ancora rimarginate. E per queste fette di popolazione la “in-sofferenza” diventa duplice: al risentimento, si somma il disagio economico.
La lettura del voto
Il voto del 4 marzo scorso non è solo frutto di paure e timori, quindi ascrivibile esclusivamente alla categoria «populismo-nazionalismo» alla Bannon. È qualcosa di più articolato: ha visto confluire le due dinamiche della “in-sofferenza” presenti nei diversi Nord, ridisegnando la geografia politica. La sorpresa, però, rivela l’incapacità di una grande parte della classe dirigente – e non solo di quella politica – di considerare i movimenti carsici della società e dell’economia. Come dimostrano il viaggio nel Nord e le ricerche di Community Media Research per La Stampa, l’ascensore sociale nel Settentrione si è bloccato, rispetto a 5 anni fa, per il 67% della popolazione e per il 30% è sceso. Il ceto medio si è diviso fra quanti hanno saputo almeno mantenere il proprio livello di status (magari erodendo il patrimonio) e chi ha visto diminuire le opportunità. La stessa Banca d’Italia evidenzia che la quota di povertà in Italia rimane assai elevata nel Mezzogiorno (39% nel 2006 e nel 2016), ma nel Nord cresce dall’8,3% (2006) al 15% (2016). La popolazione invecchia progressivamente e i fenomeni migratori incutono più timore. Chi esprime un orientamento accogliente verso i migranti è ancora maggioritario (53,7%), ma diminuisce rispetto al 2013 (66,1%), a favore di una più elevata avversione (dal 5,1% al 16,7%). Le comunità territoriali, a torto o a ragione, si percepiscono spaesate, vulnerabili. L’elenco dei fenomeni erosivi sarebbe lungo, ma evidenzia il lascito della crisi: una società e un’economia polarizzate, divise in modo crescente e più netto che in passato. Di qui, una “in-sofferenza” che per essere riassorbita chiede una progettualità inclusiva, in grado di offrire un nuovo orizzonte di opportunità: per tutti.