22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Lea Melandri

Il dilemma «uguaglianza-differenza» e le diverse figure della cittadinanza femminile

A muovere le donne nella rivendicazione di una cittadinanza completa era stata fino a metà del ‘900 l’idea che bastasse ridefinire in positivo la loro “differenza”, estendere le “virtù del cuore” fuori dall’ambito privato, certe che la “maternità sociale” avrebbe creato forme più umane di convivenza. L’emancipazione, ai suoi inizi, sembra che non possa percorrere che la strada già segnata dal modello dominante: da un lato diritti “neutri”, e dall’altro ruoli “naturali”, compiti specifici di un sesso e dell’altro, che avevano solo bisogno di essere riscoperti nella loro armoniosa complementarità. Dietro il dilemma “uguaglianza/differenza”, che porterà comunque le associazioni femminili tra ‘800 e ‘900 a gettare le basi dello stato sociale, si può dire che fa il suo ingresso nella polis il sogno d’amore, come ricongiungimento dei due rami divisi dell’umanità riportati alla coppia originaria madre-figlio. «Educatrici della società, rigeneratrici della coscienza umana» le donne, che come scrive Sibilla Aleramo «uniranno le loro voci alle più intemerate del paese», riscoprono la «divina funzione domestica» come integrante forza creativa capace di risollevare uomini «un po’ tristi e un po’ smarriti» in un periodo di «transizione ansiosa».

Solo l’impeto giovanilistico e rivoluzionario di una generazione che aveva creduto di poter abbattere in un sol colpo le barriere dello psichismo inconscio e di consolidati poteri economici e politici poteva far credere alle femministe degli anni ’70 di avere avviato una volta per sempre il processo di liberazione dall’identità femminile prodotta dall’uomo e la crescita, sia pure lenta, di un «io non conforme» ai modelli dati, una singolarità capace di ripensarsi in una dimensione collettiva , relazionale, fuori dall’idea di appartenenza a un “genere” coeso, valido per tutte le donne. La storia che è venuta dopo, dagli anni ’80 ad oggi, ha reso evidente che il paradosso -o forse sarebbe meglio dire l’aporia- sta nel cuore della differenziazione originaria: celebrando la sua vittoria sul trauma della nascita, trasformandosi da figlio inerme in padre, marito dominatore, l’uomo ha lasciato aperta la strada ad altri capovolgimenti. Troppo spesso si dimentica che le figure della differenza di genere, nella loro gerarchia e complementarità, strutturano rapporti di potere ma conservano anche il desiderio primordiale di un ideale ricongiungimento, la promessa del ritorno all’unità a due della nascita: fare di due nature diverse un solo essere armonioso. È questa “essenza di Eros”, l’amore nella sua forma originaria, che attraverso l’oblatività femminile, la dedizione alla cura dell’altro, mantiene la famiglia e per estensione la società stessa dentro vincoli di un’infantilizzazione tenera e violenta, dipendenze e prestazioni “ancillari” coperte da illusioni salvifiche?

Il dubbio che l’emancipazione rinasca sempre dai sedimenti più arcaici della dualità ereditata da secoli di cultura maschile trova oggi la sua conferma sia nella femminilizzazione dello spazio pubblico -come richiesta di “talenti femminili” da parte della nuova economia, dell’industria dello spettacolo, della pubblicità, del consumo, ma anche come precarietà diffusa, crisi della politica, ecc.- sia nel modo con cui vengono affrontate e discusse dalle donne stesse le questioni sempre più pressanti della “conciliazione” vita e lavoro, famiglia e carriera, e della sottorappresentanza nei luoghi decisionali del potere. Dalle testimonianze e dalle inchieste che si vanno moltiplicando sulle esperienze di leadership femminile, emerge con chiarezza che è proprio la convergenza tra una crisi di sistema alla ricerca di nuove “risorse” e la tentazione mai tramontata nell’aspettativa di cittadinanza completa delle donne di vedere riconosciuto il “valore imprescindibile” della loro differenza, a ricomporre fuori dall’ambito domestico il sogno di armonia che è stato finora della coppia degli innamorati. Viene il sospetto che la civiltà che abbiamo ereditato non abbia mai smesso di attingere, materialmente e simbolicamente, alle “risorse” che ha confinato fuori dalla polis, perché restassero immobili, eternamente uguali come le leggi di natura.

Il declino del patriarcato sembra aver portato allo scoperto un ideale di “uomo femmina”, fonte di ispirazione di filosofi, poeti, artisti, pensatori religiosi, figura di una maschilità temperata da sentimenti, emozioni, affetti in cui non è difficile per le donne riconoscersi. Se gli intellettuali nostrani non avessero tenuto in tanto discredito autori vicini al senso comune e all’immaginario collettivo, come Bachofen, Michelet, Mantegazza, non avrebbero bisogno oggi di interpellare tanti saperi per rendersi conto che la femminilizzazione della polis era già inscritta nel suo atto fondativo.

«…questo nuovo liberto della società moderna è tollerato, non eguagliato a noi; è come un orfano raccolto per la via, che vive coi membri di una famiglia senza farne parte integrante. Se da concubina è diventata madre, un gran passo rimane a farsi perché diventi donna, o, dirò meglio, uomo-femmina, una creatura nobilissima e delicatissima, che pensi e senta femminilmente e completi così in noi l’aspetto delle cose» (Paolo Mantegazza, Fisiologia dell’amore, 1879).

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