Fonte: Corriere della Sera
di Federico Fubini
Al posto di Timmermans una leader più «rigorista». Grazie all’inazione della cancelliera il candidato socialista entra moribondo nel vertice di domenica.
Il 26 giugno cinque leader politici si raccolgono in una saletta a Osaka. È la vigilia del G20 e i delegati di Berlino, Parigi, Roma, Madrid e l’Aia, giunti in Giappone, hanno una questione da discutere: le nomine europee. Ne esce il pacchetto di cui poi si sarebbe parlato molto, imperniato sul passaggio alla guida della Commissione Ue del socialista olandese Frans Timmermans e del liberale belga Charles Michel al Consiglio europeo. Giuseppe Conte, per l’Italia, dice di sì. Il premier spagnolo Pedro Sánchez fa sapere che presenterà l’accordo ai socialisti europei. Il presidente francese Emmanuel Macron promette di farlo con i liberali. La tedesca Angela Merkel si incarica di preparare il terreno con il suo partito in Europa, i popolari (Ppe). Tutto doveva essere pronto per il vertice di Bruxelles la domenica dopo.
Due leader avrebbero rispettato l’impegno di Osaka, Sánchez e Macron. Altri due, Conte e Merkel, no. Il premier italiano avrebbe cambiato posizione solo dopo il rifiuto di Timmermans da parte di Matteo Salvini, vicepremier e capo leghista: Conte motiverà il suo giro di valzer con una questione «di metodo» contro un accordo fra pochi grandi Paesi, ma gli è mancata la forza di contraddire il leader di fatto del suo Paese. Quanto a Merkel, disattende la promessa di Osaka nel suo tipico stile. Non fa nulla. Fino a domenica, omette di spiegare e sostenere l’accordo su Timmermans fra suoi compagni di partito europei. Lo farà solo domenica stessa quando la notizia è pubblica e il Ppe è ormai una tonnara ribollente contro uno schema calato dall’alto che impedirebbe ai popolari di esprimere il presidente della Commissione Ue.
Anche grazie all’inazione della cancelliera, l’accordo su Timmermans entra così moribondo nel vertice domenica. Del resto era già nato zoppo a Osaka a causa di un altro strano difetto di fabbrica, perché concentrava su ben due nomi del piccolo Benelux le due poltrone più potenti di Bruxelles. In ogni caso del colpo di grazia lunedì all’alba si incarica Conte, che toglie il suo appoggio a un uomo che pure avrebbe sensibilità vicine all’Italia: molto poco rigido sulla finanza pubblica, deciso a attuare una redistribuzione attiva dei rifugiati in Europa, Timmermans conosce bene l’Italia per averci vissuto ed è quasi madrelingua. Ma è affondato dal premier di Roma, alleato ai popolari e le destre d’Europa centro-orientale.
Lo scompiglio fra i leader europei è tale lunedì mattina che il vertice seguente – sembra in un primo tempo – si sarebbe dovuto fissare a metà luglio. Però poi si decide di riconvocarsi il giorno dopo, ieri a pranzo: come se qualcuno avesse già un asso nella manica. Lo tira fuori Merkel, naturalmente. Si presenta con un’idea che le sarebbe venuta proprio all’ultimo per sbloccare l’impasse, sostiene la cancelliera alle delegazioni nazionali che incontra una a una: Ursula von der Leyen, la sola figura di ministro presente in tutti i governi Merkel dal 2005 a oggi. Una delfina. È la donna che la cancelliera voleva nel ruolo di Spitzenkandidat del Ppe, prima che il bavarese Manfred Weber la bruciasse sul tempo. Merkel ieri a Bruxelles ne presenta le qualità a tutti. A Conte dice di parlare pure con von der Leyen per tutte le sue esigenze, perché è bravissima. Uno dopo l’altro, la cancelliera si tira dietro tutti sul nome del primo tedesco a guidare la Commissione dopo Walter Hallstein oltre mezzo secolo fa.
Poi però all’ultimo, consultati gli alleati di governo socialdemocratici a Berlino, Merkel sceglie di salvare le apparenze con una foglia di fico: al voto finale su von der Leyen la Germania si astiene, lasciando che a candidarla formalmente sia Macron. Così il duo franco-tedesco ottiene che la guida della Commissione diventi loro diretta emanazione e non più, come oggi, espressione del voto popolare attraverso l’Europarlamento. Von der Leyen è tipica di una certa sensibilità tedesca: nel 2011 chiese che la Grecia cedesse le riserve d’oro e le quote delle sue imprese in garanzia per gli aiuti; da ministra del Lavoro ha sostenuto la deflazione dei salari; e da ministra della Difesa tiene da anni i bilanci ai minimi d’Europa, in proporzione al reddito, per aumentare i surplus.
Macron per parte propria ottiene che alla guida della Banca centrale europea vada la francese Christine Lagarde, che non è un’economista. Resta naturalmente un problema: oggi sono tedeschi la leader della Commissione Ue, quelli della Banca europea degli investimenti, del fondo salvataggi Esm, del Consiglio di risoluzione bancaria, il segretario generale dell’Europarlamento e soprattutto quello della stessa Commissione: l’onnipresente e temuto Martin Selmayr. Non può restare con von der Leyen, sarebbe davvero troppa Germania. Ma per Selmayr è già pronta la soluzione: andrà alla Bce, per occuparsi dietro le quinto di tutto ciò che Lagarde non farà. Così, per una questione «di metodo», l’Italia ha scambiato l’amicizia di Timmermans con l’accordo più franco-tedesco che ci sia.