Fonte: Corriere della Sera
di Massimo Franco
Il centrodestra appare vittima delle proprie ambizioni smisurate, che lo ha reso miope. E la spallata non è riuscita
Il sopravvissuto solitario delle Regionali è il politico che fino a ventiquattr’ore prima veniva indicato come il capro espiatorio di una disfatta data per quasi certa. Da agnello sacrificale, bersagliato dalle opposizioni e insidiato dall’interno della coalizione di governo, il segretario del Pd, Nicola Zingaretti riemerge dalle doppie urne con le stimmate del quasi vincente dell’alleanza giallorossa. Ha perso una regione, le Marche, ma ha tenuto Toscana, Puglia e Campania. E questo, politicamente e psicologicamente, basta e perfino avanza per accreditare un successo: tanto più con una partecipazione superiore alle attese e alla paura del Covid. Il Movimento Cinque Stelle naturalmente gioisce per il quasi 70 per cento ottenuto dai Sì al taglio dei parlamentari, col 53,84 di affluenza. Ma solo per quello, e con un’enfasi tipica di chi deve nascondere l’altra faccia della medaglia del 20 e 21 settembre. Ormai, a livello elettorale naviga al confine di percentuali a una cifra: almeno sul piano locale. E, quel che è peggio per i seguaci di Beppe Grillo, il Movimento appare ininfluente per far vincere o perdere lo schieramento di governo. Per paradosso, nell’unica realtà in cui hanno presentato un candidato comune, la Liguria, M5S e Pd hanno perso: come era accaduto nove mesi fa in Umbria.
La promessa di passare adesso alla riduzione degli stipendi di deputati e senatori suona soprattutto come un omaggio stanco a un populismo a caccia di argomenti «facili». È anche il tentativo disperato di offrire un’unità di facciata da parte di una forza percorsa da tensioni scissionistiche potenti. I peana alla portata «storica» del risultato e, in parallelo, la raccomandazione dell’attuale capo politico, Vito Crimi, a «non commentare i risultati parziali» prima che «venga indicata la linea ufficiale del M5S», mostrano una discrasia vistosa.
Non solo. Ammettendo che le Regionali «per il Movimento potevano essere organizzate con un’altra strategia», il ministro degli esteri grillino Luigi Di Maio sfiora il tema della sconfitta; e anticipa un’inevitabile resa dei conti interna. Ma per il governo l’esito è una boccata di ossigeno dopo una lunga, timorosa apnea. La somma tra Sì al referendum e tenuta del Pd può far riemergere Giuseppe Conte dall’assenza studiata nella quale si era immerso nelle ultime settimane: un tentativo di sottrarsi ai contraccolpi di un indebolimento non avvenuto di Pd e M5S, dopo che aveva invocato invano un’alleanza tra dem e grillini nelle regioni.
Zingaretti ieri ha ribadito che, se quel patto fosse stato accettato, la coalizione di Palazzo Chigi avrebbe vinto un po’ dovunque. C’è da dubitarne. In regioni come il Veneto la forza del governatore leghista Luca Zaia non era contendibile. E nella stessa Liguria del patto M5S-Pd il centrodestra ha prevalso: anche se per le opposizioni il bilancio è agrodolce, se non amaro. «Perdono» vincendo. Soprattutto la Lega di Matteo Salvini si ritrova a fare i conti con il profilo di Giorgia Meloni e dei suoi Fratelli d’Italia; e con la silhouette ingombrante di Zaia.
Il centrodestra appare vittima delle proprie ambizioni smisurate, che lo ha reso miope. Pensava di scardinare la Toscana ormai da anni «rossa» in modo sbiadito, finendo per mobilitare la sinistra e perfino per riavvicinare una tantum Zingaretti ai renziani. E in Puglia ha dato per scontata una vittoria rivelatasi più difficile del previsto. Così, pur avendo conquistato le Marche e confermato Veneto e Liguria, all’opposizione non è riuscita la spallata: ha ottenuto un’affermazione inferiore a quella che aveva accarezzato e sbandierato.
L’errore politico è stato proprio quello di additare un successo schiacciante, per poi ritrovarsi con un risultato più sfaccettato. E, per paradosso, l’esito è di puntellare l’odiato governo Conte che si voleva abbattere. Le logiche locali stavolta hanno prevalso sulla politica nazionale. E questo ha finito per fare emergere un «partito dei governatori» trasversale ed emancipato dai leader di partito; anzi, tendenzialmente destinato a offuscarne il primato, e in prospettiva ad affiancarlo e sostituirlo.
Zaia, Vincenzo De Luca in Campania, Giovanni Toti in Liguria, Michele Emiliano in Puglia brillano ormai di luce propria, come Stefano Bonaccini in Emilia Romagna. A guardare bene, lo stesso Zingaretti è arrivato alla guida del Pd essendo tuttora presidente della regione Lazio. Sono personaggi radicati, al contrario di un grillismo che non a caso fatica a diventare proposta o alternativa. E vede declinare le sindache delle due città-vetrina, Roma e Torino, che dovevano essere punti di partenza e stanno invece anticipando il capolinea del Movimento; e rendendolo un potenziale focolaio di instabilità.