22 Novembre 2024

Fonte: corriere della Sera

di Michele Salvati

Se le contraddizioni nel governo esplodessero, sinistra liberale e sinistra tradizionale nei Dem entrerebbero in contrasto sul rapporto con il M5S


Di molte cose può essere rimproverato il Partito Democratico, prima fra tutte il conflitto tra due orientamenti — uno di sinistra liberale, l’altro di sinistra tradizionale — che non consente agli elettori di capire che razza di animale politico sia. Ma accusarlo di non aver compreso il mutamento del contesto elettorale che si è verificato in Italia e in tutto l’Occidente industrializzato nell’ultimo decennio sottovaluta l’intensità e la velocità di questa svolta: tutti i «vecchi» partiti di centrosinistra sono stati presi in contropiede. E lo sono stati anche tradizionali partiti di centrodestra, se non avevano anticipato gli orientamenti nazionalisti e populisti di nuove formazioni politiche cresciute come funghi dopo una pioggia abbondante.
Un conto è però comprendere, un altro è reagire. Renzi aveva cercato di reagire, di intercettare il nuovo clima politico, e fin quando ha assecondato la voglia di novità e di «rottamazione» che fiutava in giro il consenso non gli è mancato. Ma poi ha dovuto smorzare i toni populistici iniziali, anche senza abbandonarli del tutto. E i provvedimenti del suo governo, alcuni ben pensati, altri meno, stanno in buona misura nell’ambito moderato e «ragionevole» di una sinistra liberale. Che cosa sarebbe avvenuto se essi fossero stati meglio preparati e cadenzati nessuno può dirlo: uno dei tecnici dei governi Renzi e Gentiloni, Marco Leonardi, in un bel libro appena uscito (Le riforme dimezzate), pensa che ciò avrebbe fatto una notevole differenza. Ma se quei governi volevano restare sul piano della «ragionevolezza» non avrebbero certo potuto promettere un vero «reddito di cittadinanza» e un’«abolizione della Fornero», o adottare una politica verso i migranti e un atteggiamento verso l’Europa come quelli sostenuti dai partiti populisti. E non avrebbero certo potuto gridare «tutti a casa»: per gli elettori arrabbiati del marzo dell’anno scorso anche Renzi e Gentiloni facevano parte del vecchio e anche loro andavano rottamati.
La sconfitta discendeva da un lontano passato di mancate riforme, da un presente di ristagno e di povertà, da un futuro senza prospettive di benessere immediato, e da un contesto di rabbia e mobilitazione estremistica degli elettori. Una svolta radicale sia nelle politiche, sia e soprattutto nella classe politica, una svolta com’era quella che demagogicamente promettevano i populisti, non era adottabile dal Partito Democratico (aggiungo: per fortuna) e la sconfitta era nell’aria. Questa è però una conclusione raggiunta con dosi abbondanti del senno di poi e non assolve le responsabilità dei dirigenti di quel partito.
Come ho accennato all’inizio la loro responsabilità maggiore è quella di non essere riusciti a dare agli elettori un’idea chiara di che cosa sia il partito e di quali siano le proposte che esso rivolge agli italiani: fin dall’inizio, la reazione interna contro la svolta renziana è stata estrema e non ha certo giovato all’identità del partito, anche se allora i suoi organi dirigenti erano ampiamente controllati dai sostenitori della svolta. Oggi sono passati più di due anni dalla sconfitta referendaria e dalle dimissioni del governo Renzi e quasi uno dalla batosta elettorale e dalle dimissioni di Renzi dalla segreteria nazionale. La campagna elettorale per le Europee è in corso, ma, a seguito di ritardi nel congresso dovuti a dissensi interni, un nuovo segretario sarà eletto al più presto il 3 marzo: tutto fa prevedere che lo scontro tra le due linee politiche che si sono combattute nel recente passato continuerà nel prossimo futuro con diversi protagonisti, complicato dall’ombra di Banquo di un Renzi di cui non si capiscono le intenzioni.
Il prossimo futuro è irto di problemi di fronte ai quali presentarsi con un’identità chiara e condivisa sarebbe necessario. Finora, di fronte alle insensatezze e ai danni del governo a doppia trazione populista, il gioco dell’opposizione è stato relativamente facile, non ha creato contrasti significativi all’interno del Pd e ha persino consentito una certa convergenza con Forza Italia. Ma se, com’è possibile, le contraddizioni tra i 5 Stelle e la Lega esplodessero, se — con o senza nuove elezioni — si andasse a un governo di destra a egemonia leghista, il contrasto tra le due linee presenti nel partito tornerebbero a dividerlo seriamente. Perché una cosa è una linea di sinistra liberale, attenta alle condizioni di sofferenza dei ceti più poveri ma consapevole delle debolezze storiche del nostro Paese e dello sforzo e dei tempi necessari per porvi rimedio. Un’altra e ben diversa è una linea di sinistra tradizionale, nella quale spira una forte corrente di simpatia nei confronti di una parte dei 5 Stelle.
Una simpatia comprensibile. Una parte dei dirigenti e degli elettori di questo movimento non è una costola della sinistra, come una volta D’Alema disse della Lega per giustificare lo scontro tra Bossi e Berlusconi. È una parte reale della sinistra più estremista e confusa che il nostro Paese ha prodotto, e che la sinistra di governo non ha mai ripudiato con argomenti chiari e convincenti. E sarebbe questa a condurre la lotta più accanita contro la destra di Salvini. Una lotta di opposizione in cui 5 Stelle e Pd si troverebbero appaiati e nella quale sarebbe arduo distinguere gli aspetti «ragionevoli» da quelli estremisti e velleitari. In tal caso l’evoluzione del Pd verso un partito di sinistra liberale sarebbe ritardata, se pure riuscirà ad evitare una nuova spaccatura.

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