16 Settembre 2024

Conta l’efficacia dei progetti più della quantità di investimenti. E le innovazioni dovranno entrare non sulla carta ma nella realtà quotidiana degli italiani

Le dimensioni del Piano nazionale di ripresa e resilienza sono tali che mettere a fuoco i punti salienti diventa difficile per tutti. Lo è per il governo, per l’opposizione che prima governava, per chi vive nelle istituzioni o chi guarda da fuori. Una delle sfide degli anni del Pnrr è fare il punto di volta in volta sulle priorità reali o solo apparenti. Quanto a questo, non è vero che il primo grande imperativo sia spendere, spendere il più in fretta possibile perché siamo già in ritardo e nel 2026 scatta la ghigliottina di Bruxelles.
Questo è un modo vecchio di vedere gli investimenti pubblici e i fondi europei. In primo luogo, quel che conta di più non è quanto si spende o quanto velocemente ma i risultati che si ottengono con quei soldi: è su di essi che l’Italia, come tutti gli altri Paesi europei, è tenuta d’occhio a Bruxelles. Per esempio, il numero dei posti in asilo-nido non è sceso da 264 mila a 150 mila con l’ultima revisione perché siamo in ritardo con le opere: è sceso perché si era pensato all’inizio del Pnrr di risistemare anche dei posti già esistenti, non solo di crearne di nuovi; ma questa scelta era incompatibile con quanto indicato: il Pnrr serve per aprire posti in asilo-nido in più. Il concetto, semplice ma rivoluzionario per l’Italia, è che conta l’efficacia dei progetti più della quantità di spesa.
Ci sono però altri due motivi per respingere la tirannia delle fatture. Uno di essi è che potremmo anche scoprire che in questo non siamo indietro come credevamo. Alle ultime previsioni disponibili, ormai di un anno fa, il governo immaginava di aver speso 61 miliardi su 191,5 entro la fine di quest’anno. Siamo sotto, ma forse non in maniera catastrofica: forse fra due terzi e tre quarti della strada che si era previsto di coprire, non certo a meno della metà. Chi ha cercato di fare i conti nota infatti che pagamenti per molti miliardi sono stati già fatti dalle amministrazioni — Comuni inclusi — ma non ancora rendicontati dalla Ragioneria. Per ora non compaiono, ma ci sono. Terza ragione per angosciarsi sì, ma non troppo, è che nel 2026 la ghigliottina europea sui fondi del Pnrr non calerà. Non c’è neanche bisogno che i governi europei si accordino per concedere una proroga: a certe condizioni essa esiste già nelle regole attuali. L’articolo 17,1 del regolamento del Fondo di ripresa permette di estendere la realizzazione degli investimenti oltre il 2026 se, in precedenza, i fondi vengono conferiti dal governo a un veicolo finanziario che se ne occupa: inclusa la Cassa depositi e prestiti o la Banca europea degli investimenti, come fa la Spagna per una ventina di miliardi.
Dunque la priorità principale del Pnrr, checché se ne dica, non è lì. È, sempre di più, nelle riforme che dovranno accompagnare la spesa non solo sulla carta ma soprattutto nella realtà quotidiana degli italiani. Le difficoltà nel governo e nel Paese sul passaggio al mercato libero delle forniture di energia — con l’ipotesi del ministro Raffaele Fitto di chiedere la «cortesia» di una proroga a Bruxelles — sono emblematiche di una certa impreparazione collettiva in Italia su questo aspetto del Piano. È come se fossimo tutti colti di sorpresa da un’imposizione calata dall’alto. Ma non è: le riforme sono indicate dall’Italia stessa e accettate a Bruxelles. E il rischio di farsi sorprendere non riguarda solo il governo, ma l’intera classe politica, le (legittime) rappresentanze di interessi, gli apparati dello Stato. Esempi? Gli «obiettivi» e i «traguardi» del Pnrr da raggiungere entro la fine di quest’anno erano 69 nel piano originario, in cambio di 20,6 miliardi. Dopo la recente revisione gli «obiettivi» e «traguardi» sono scesi a 52 e le erogazioni della quinta rata sono scese a 12,1 miliardi. Questo non vuol dire che perderemo i fondi, ma che alcune novità importanti slittano perché non siamo pronti: fra tutte, otto riforme per ridurre o annullare i ritardi di pagamento della pubblica amministrazione alle imprese, rimandate a metà del 2025. Eppure decine di migliaia di imprese che forniscono comuni, ministeri, strutture sanitarie sanno quanto sia vitale per loro.
Questo non è un caso isolato. È tipico di un Paese e di uno Stato che da decenni faticano ad accettare il cambiamento. Eppure riuscirci diventa ora fondamentale per il prosieguo del Pnrr. Nel 2024 dovremo non tanto fare riforme nero su bianco, ma mostrare risultati concreti delle riforme sui temi che più toccano gli italiani: la riduzione concreta dell’arretrato nei tribunali e nelle corti d’appello civili; la semplificazione e digitalizzazione di duecento diverse procedure amministrative per cittadini e imprese; il raggiungere risultati concreti di lotta all’evasione e riduzione del contenzioso fiscale tramite le lettere di conformità dell’Agenzia delle Entrate; un’altra legge di concorrenza su settori nevralgici come farmaceutico, distribuzione al dettaglio, assicurazioni, reti del gas, porti, aperture d’impresa.
Senza tutto questo il problema non è che rischiamo di perdere i fondi. È che spenderli sarà come versare benzina in un motore difettoso, se non guasto. Al governo la responsabilità di spiegare le riforme ai molti refrattari e preparare il Paese. A tutti gli altri quella di capire che non è sul Pnrr che si fa l’eterna scaramuccia nazionale fra guelfi e ghibellini: qui vinciamo — o perdiamo — tutti insieme.

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