Fonte: Corriere della Sera
di Antonio Polito
Da anni si parla di rafforzare il presidente del Consiglio e l’esecutivo, ma tutta la precedentepedagogia politica, bipartisan e tripartisan,è stata capovolta in pochi giorni
Pare che il presidente del Consiglio non conti più nulla. Che sia un mero «esecutore», come l’ha definito Di Maio. Qualcuno cui passare il «contratto di governo» scritto dai partiti in modo che lo legga ad alta voce in Parlamento, e che torni a chiedere istruzioni quando la realtà non dovesse combaciare con il testo. Una ciliegina sulla torta del programma. È così? La Costituzione italiana ne definisce ruolo e poteri all’articolo 95: «Il presidente del Consiglio dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico e amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri». A prescindere dalla qualità delle persone, sembra difficile che anche il migliore dei cosiddetti «premier terzi», come vengono oggi definiti i candidati per caso a Palazzo Chigi, possa effettivamente dirigere il governo, esserne responsabile, e mantenerne l’unità di indirizzo politico. Mattarella dovrebbe dunque dare l’incarico a un portavoce? Eppure la scelta del presidente del Consiglio sembrava importantissima ancora poche settimane fa. Tutti i partiti, anche i più improbabili, hanno presentato in campagna elettorale propri candidati alla carica. I Cinque Stelle cambiarono addirittura lo statuto per investire Di Maio delle prerogative corrispondenti al ruolo, a partire dalla scelta dei ministri. Nel centrodestra si stabilì con un apposito vertice che il premier in pectore sarebbe stato il primo arrivato tra i tre candidati in corsa.
Dai tempi di Craxi (cioè da un trentennio) la politica italiana afferma che sarebbe indispensabile dare più poteri al presidente del Consiglio, più di quanti non gliene attribuisca la Costituzione, considerata troppo timida nel garantire all’esecutivo la necessaria autonomia dal Parlamento, con gravi rischi di consociativismo e indecisionismo. La Seconda Repubblica si chiama «seconda» perché fu fondata sulla possibilità per i cittadini di scegliere il nome del premier nelle urne, grazie al sistema elettorale che prese il nome dall’attuale capo dello Stato. Più di recente Matteo Renzi varò l’Italicum, che di fatto prevedeva addirittura l’elezione diretta del capo del governo attraverso il ballottaggio (poi bocciato perché incostituzionale).
Entrambi i progetti di riforma della Costituzione approvati dal centrodestra nel 2006 e dal centrosinistra nel 2016 avevano lo scopo indiretto di rafforzare l’esecutivo. Ma anche a Costituzione vigente, il legislatore è intervenuto quattro volte per ampliare le funzioni e modificare l’organizzazione della Presidenza del Consiglio. Tutta questa «presidentite» è da decenni indicata all’elettorato come l’unica via per mettersi al passo con le altre democrazie europee, considerate più efficienti e più rispettose della volontà popolare. Ci sono stati i sostenitori del premierato britannico, quelli del cancellierato tedesco e quelli del semi-presidenzialismo alla francese; ma per tutti era necessario rafforzare il comando di chi governa, liberandolo dai condizionamenti del Parlamento e dai ricatti dei partiti. In attesa delle necessarie riforme, i media si sono portati avanti con il lavoro chiamando abitualmente «premier» il presidente del Consiglio (e «governatore» il presidente di Regione).
Tutta questa pedagogia politica, bipartisan e tripartisan, è stata capovolta in pochi giorni, sulla base del paragone delle trattative in corso con il contratto di governo alla tedesca. Ma in Germania Cdu e Spd si sono seduti a scrivere il programma quando era già stabilito che Angela Merkel sarebbe stata la cancelliera. Da noi finora si è giocato a mosca cieca. Per guidare un governo che nelle intenzioni dovrebbe durare un’intera legislatura e scrivere la storia, si cerca un presidente del Consiglio come un idraulico nel weekend.