Il premier sceglie il compromesso: “Obiettivo stabilità e pace sociale”
Draghi accetta qualche passo indietro sulla riforma del fisco e tende la mano ai 5 Stelle. Vertice con Salvini. Il leader della Lega più morbido sulle armi, congela la richiesta di dibattito e conferma: “Se serve vado a Mosca”
Media, concede ai partiti. In poche ore, Mario Draghi accetta alcuni compromessi e chiude diversi fronti aperti. Rinuncia a frammenti delle proprie posizioni, in nome della stabilizzazione della maggioranza. E lo fa per perseguire tre obiettivi: approvare entro l’estate la riforma della concorrenza, vitale per i fondi del Pnrr. Garantire pace sociale, che è possibile solo con un esecutivo stabile. E assicurare all’Ucraina il sostegno promesso, rispettando gli accordi con gli alleati. Il premier, insomma, ribadisce con i fatti l’intenzione di governare fino al 2023. Come, tra l’altro, impone un quadro internazionale scosso dalla guerra.
A inizio giornata, l’ex banchiere ha già chiaro il punto di caduta delle mediazioni che dovrà gestire. Sa che dovrà accettare qualche passo indietro sulla riforma del fisco, portata a casa dai suoi ambasciatori Roberto Garofoli e Antonio Funiciello. È una mossa utile a tenere ancorato il centrodestra. Ma è ai cinquestelle che tende soprattutto la mano. Allarga anche ai percettori di reddito di cittadinanza il bonus di 200 euro e abbandona la trincea della linea dura sul superbonus edilizio. Attenua insomma propositi bellicosi sul 110%, ma lo fa perché consapevole di una necessità: sopire le tensioni per portare a casa entro luglio la riforma della concorrenza e poi concentrarsi in autunno sui decreti delegati.
Non a caso l’incontro con Matteo Salvini, a metà pomeriggio, dirada alcune nubi. Il leader della Lega non fa cenno della sua posizione contraria all’invio delle armi, ma pone l’accento – questa è la novità – sul “riavvicinamento di Usa e Russia”. “Spero che la missione a Washington di Draghi serva a questo”, dice il segretario del Carroccio ai cronisti che lo attendono fuori da Palazzo Chigi. Salvini, soddisfatto per l’esito della trattativa sulla delega fiscale, smorza insomma i toni sulla guerra e si affida al premier. Nell’attesa del suo viaggio da Biden, congela qualsiasi richiesta di dibattito in aula e non affronta il tema del terzo decreto del governo che prevede materiale bellico più pesante per Kiev. Il capo del Carroccio non rinuncia però all’idea di un viaggio in Russia: “Ho ribadito a Draghi – afferma – che se io potessi servire al processo di pace e di riavvicinamento fra le parti, andrei ovunque, da Mosca a Washington, da Pechino a Istanbul. Lo farei volentieri. Non capisco la polemica italiana su chi lavora per far tacere le armi”.
Quel che emerge, in ogni caso, è che il segretario leghista si mostra d’un tratto più morbido rispetto a Conte. Sono proprio gli armamenti, infatti, a divedere ancora Draghi e Conte. Il premier non ha ancora deciso se sarà lui a parlare alle Camere, oppure delegherà Luigi Di Maio e Lorenzo Guerini. Potrebbe però decidere di presentarsi in Parlamento sfruttando la promessa di riferire ogni trimestre sulla guerra in Ucraina: come a dire, nulla di strano o imposto. Di certo non lo farà prima della missione a Washington, come avrebbe voluto l’avvocato 5S. E sicuramente non permetterà che al governo venga chiesto di distinguere tra tipologia di armamenti più o meno offensivi, considerando tutto quello che inviamo, ovvero materiale bellico utile alla resistenza ucraina. Ogni decisione dell’esecutivo, ha ribadito anche ieri il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, è nel solco della risoluzione parlamentare che promette aiuti e sostegno anche militare a Kiev. Semmai, il tema è quando sarà approvato il terzo decreto interministeriale, quello utile a spedire obici e altre armi più pesanti: forse già la prossima settimana, ma quasi certamente dopo il viaggio negli Stati Uniti per incontrare Joe Biden. Il testo è comunque sostanzialmente pronto e attende solo la formalizzazione dell’esecutivo.
Dopo l’incontro con il Presidente degli Stati Uniti, si riproporrà il tema del viaggio di Draghi in Ucraina. Da capire se l’opzione sondata dai diplomatici – una missione a cinque con Macron, Scholz, Sanchez e Morawiecki, sia praticabile politicamente, dal punto di vista logistico e della sicurezza. I prossimi giorni aiuteranno a sciogliere il dubbio.
A inizio giornata, l’ex banchiere ha già chiaro il punto di caduta delle mediazioni che dovrà gestire. Sa che dovrà accettare qualche passo indietro sulla riforma del fisco, portata a casa dai suoi ambasciatori Roberto Garofoli e Antonio Funiciello. È una mossa utile a tenere ancorato il centrodestra. Ma è ai cinquestelle che tende soprattutto la mano. Allarga anche ai percettori di reddito di cittadinanza il bonus di 200 euro e abbandona la trincea della linea dura sul superbonus edilizio. Attenua insomma propositi bellicosi sul 110%, ma lo fa perché consapevole di una necessità: sopire le tensioni per portare a casa entro luglio la riforma della concorrenza e poi concentrarsi in autunno sui decreti delegati.
Non a caso l’incontro con Matteo Salvini, a metà pomeriggio, dirada alcune nubi. Il leader della Lega non fa cenno della sua posizione contraria all’invio delle armi, ma pone l’accento – questa è la novità – sul “riavvicinamento di Usa e Russia”. “Spero che la missione a Washington di Draghi serva a questo”, dice il segretario del Carroccio ai cronisti che lo attendono fuori da Palazzo Chigi. Salvini, soddisfatto per l’esito della trattativa sulla delega fiscale, smorza insomma i toni sulla guerra e si affida al premier. Nell’attesa del suo viaggio da Biden, congela qualsiasi richiesta di dibattito in aula e non affronta il tema del terzo decreto del governo che prevede materiale bellico più pesante per Kiev. Il capo del Carroccio non rinuncia però all’idea di un viaggio in Russia: “Ho ribadito a Draghi – afferma – che se io potessi servire al processo di pace e di riavvicinamento fra le parti, andrei ovunque, da Mosca a Washington, da Pechino a Istanbul. Lo farei volentieri. Non capisco la polemica italiana su chi lavora per far tacere le armi”.
Quel che emerge, in ogni caso, è che il segretario leghista si mostra d’un tratto più morbido rispetto a Conte. Sono proprio gli armamenti, infatti, a divedere ancora Draghi e Conte. Il premier non ha ancora deciso se sarà lui a parlare alle Camere, oppure delegherà Luigi Di Maio e Lorenzo Guerini. Potrebbe però decidere di presentarsi in Parlamento sfruttando la promessa di riferire ogni trimestre sulla guerra in Ucraina: come a dire, nulla di strano o imposto. Di certo non lo farà prima della missione a Washington, come avrebbe voluto l’avvocato 5S. E sicuramente non permetterà che al governo venga chiesto di distinguere tra tipologia di armamenti più o meno offensivi, considerando tutto quello che inviamo, ovvero materiale bellico utile alla resistenza ucraina. Ogni decisione dell’esecutivo, ha ribadito anche ieri il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, è nel solco della risoluzione parlamentare che promette aiuti e sostegno anche militare a Kiev. Semmai, il tema è quando sarà approvato il terzo decreto interministeriale, quello utile a spedire obici e altre armi più pesanti: forse già la prossima settimana, ma quasi certamente dopo il viaggio negli Stati Uniti per incontrare Joe Biden. Il testo è comunque sostanzialmente pronto e attende solo la formalizzazione dell’esecutivo.
Dopo l’incontro con il Presidente degli Stati Uniti, si riproporrà il tema del viaggio di Draghi in Ucraina. Da capire se l’opzione sondata dai diplomatici – una missione a cinque con Macron, Scholz, Sanchez e Morawiecki, sia praticabile politicamente, dal punto di vista logistico e della sicurezza. I prossimi giorni aiuteranno a sciogliere il dubbio.