La proposta di riforma fin qui elaborata è frutto di un tentativo di compromesso fra fini inconciliabili
Premierato. Da dove nascono le difficoltà? Perché né la maggioranza né l’opposizione sono fin qui riuscite a fare proposte solide e coerenti? Perché la maggioranza sembra incapace di tirare fuori un progetto del quale nemmeno chi si oppone al premierato possa negare che esso sia comunque ben congegnato? E perché l’opposizione non è al momento in grado di fare una persuasiva proposta alternativa? Anticipo la risposta: la causa è la frammentazione, il fatto che sia la maggioranza che l’opposizione sono agglomerati in cui c’è dentro di tutto, in cui convivono forzatamente orientamenti fra loro incompatibili. La proposta di premierato della maggioranza, anche nella ultima versione, è il frutto di un tentativo di compromesso fra fini inconciliabili. Da un lato, la volontà di Giorgia Meloni di rafforzare il governo del premier tramite l’investitura popolare e, dall’altro, la volontà della Lega di impedire che ciò davvero avvenga garantendosi la possibilità, a elezione avvenuta, di fare lo sgambetto al premier eletto e di sostituirlo aggirando e neutralizzando il voto popolare. Come è ovvio, il compromesso fra chi vuole un premier forte e inattaccabile e chi lo vuole vulnerabile, non può produrre altro che un pasticcio.
L’opposizione non è messa meglio. Carlo Calenda dice che c’è una proposta su cui tutta l’opposizione è in grado di convergere: il cancellierato alla tedesca. Non metto in dubbio la sua buona fede ma so che le cose non stanno affatto così. L’opposizione è divisa fra una minoranza che vuole davvero il cancellierato e una altra parte (maggioritaria, sospetto) che magari dice di volerlo ma che in realtà non lo vuole per niente. Non si sostiene alcun cancellierato se si dichiarano a priori intoccabili tutte le attuali prerogative del presidente della Repubblica. Non può esserci il cancellierato, per esempio, se non si trasferiscono nelle mani del cancelliere il potere di licenziare i ministri nonché quello di sciogliere le Camere. Sarebbe d’altra parte strano che chi è stato tirato su a «pane e Costituzione più bella del mondo», scoprisse improvvisamente che essa invece va riformata per un aspetto decisivo, scoprisse davvero (e non solo per finta) le virtù di quella forma di parlamentarismo razionalizzato che è il cancellierato. È più facile che questa parte della opposizione, al momento buono, cancellierato o non cancellierato, ricominci a seguire, come ha sempre fatto, i soliti pifferai di Hamelin, quelli che «la Costituzione non si tocca».
E allora come se ne esce? Poiché Giorgia Meloni è primo ministro e leader del più forte partito, tocca a lei (magari dopo le elezioni europee, una volta placati i furori della campagna elettorale) fare il primo passo per tentare di sbloccare la situazione. Meloni dovrebbe prendere atto del fatto che, sul premierato, non può portarsi dietro tutta la maggioranza. Dovrebbe fare al Paese, e quindi anche all’opposizione, una proposta finalmente coerente e sensata, senza pretendere l’impossibile (ossia senza pretendere di conciliare fini fra loro inconciliabili). Se vuole insistere sulla elezione diretta deve necessariamente accompagnarla (come ha scritto Antonio Polito sul Corriere del 9 febbraio) con il ballottaggio. Meglio sarebbe se rinunciasse alla elezione diretta (basterebbe l’indicazione del nome del candidato premier). In entrambi i casi, comunque, dovrebbe saldare premierato e riforma elettorale (il meglio sarebbe un maggioritario a doppio turno). La Lega non la seguirebbe? Probabile. La Lega farebbe cadere il governo? Molto meno probabile. Con questa mossa Meloni provocherebbe comunque una divisione nell’opposizione: una parte sottoscriverebbe il progetto, un’altra parte(i finti fautori del cancellierato) si opporrebbe. In ogni caso, se una proposta ben congegnata venisse approvata dal Parlamento e se dovesse poi passare sotto le forche caudine del referendum, lo scontro non sarebbe fra destra e sinistra ma trasversale, fra i riformatori e i conservatori costituzionali presenti in entrambi gli schieramenti. E magari questa volta, a differenza delle precedenti(referendum costituzionale del 2006 e, ancora, del 2016), i riformatori uscirebbero vincenti.
Insisto sulla legge elettorale. Riformare la forma di governo favorisce il rafforzamento del primo ministro solo a patto che venga varato un sistema elettorale coerente, nelle condizioni italiane, con quell’obiettivo. La proposta fin qui adombrata dalla maggioranza, proporzionale con elevato premio di maggioranza, non funziona. Per la dubbia costituzionalità e perché dà potere di ricatto a piccoli gruppi (da aggregare per fare scattare il premio). Occorrerebbe altro. In realtà, sul tema della legge elettorale c’è oggi, nella classe politica, molta reticenza. L’impressione è che nessuno voglia davvero di cambiare l’attuale legge: essa garantisce ai capi-partito un pieno controllo sulla scelta di coloro che entreranno in Parlamento. Inoltre, è noto che il collegio uninominale (a un turno o a due turni non fa differenza) piace poco ai parlamentari, siano essi leader o peones. Ma c’è poco da fare: se non si incide sulla formazione delle coalizioni attraverso la legge elettorale la riforma del premierato resta monca e non può dare il frutto (premier forte e governo stabile) ufficialmente promesso. Razionalità e politica tendono spesso a divergere. Per fare una buona riforma bisognerebbe farle avvicinare fra loro almeno un po’.