22 Novembre 2024

Una critica della proposta. Nel 2014 avremmo eletto per 5 anni un governo Renzi, nel 2018 un governo a guida 5 Stelle, nel 2019 un governo Salvini, e che nel 2023 le elezioni hanno premiato un governo a guida Meloni

Le democrazie liberali, nate per limitare il potere dei Sovrani assoluti, si fondano su due principi essenziali: la limitazione del potere attraverso un equilibrio di pesi e contrappesi tra le varie istituzioni che lo esercitano; e la tutela delle minoranze dalla possibile «dittatura» della maggioranza grazie ai limiti di costituzionalità posti alle sue decisioni.
Per raggiungere questi obiettivi in tutte le democrazie la separazione dei poteri è parte essenziale di qualsiasi forma di governo, presidenziale o parlamentare. Non è così invece nelle proposte di premierato avanzate che prevedono che il Premier eletto dai cittadini resti in carica 5 anni. Costituzionalisti come Enzo Cheli su La Stampa e Michele Ainis su Repubblica hanno già mostrato come tale modello concentri tutto il potere nelle mani del solo Premier, privando il Capo dello Stato delle sue prerogative più significative (la nomina del Premier, dopo le elezioni e in caso di crisi; e il potere di scioglimento), e il Parlamento del suo ruolo di ispiratore e controllore dell’indirizzo politico del governo. Prevedere infatti – secondo la formula del simul stabunt, simul cadent – che in caso di sfiducia il Parlamento venga sciolto, vanifica completamente il suo ruolo, essendo altamente improbabile che esso si suicidi con un voto di sfiducia che porterebbe alla sua fine.
In realtà, la proposta prevede una teorica possibilità che se il Premier eletto dai cittadini venga sfiduciato il Parlamento possa procedere ad eleggere un nuovo Premier ma solo nell’ambito della maggioranza uscente e senza alcuna aggiunta di voti provenienti da altri partiti per prevenire i cosiddetti «ribaltoni». Anche ignorando l’evidente contraddizione di voler rimpiazzare un Premier eletto da un voto popolare, non interamente identificabile in termini di partito, con un Premier eletto da una maggioranza parlamentare predeterminata, è evidente che scopo di una simile proposta non è quello di assicurare una stabilità di governo ma quello di ingessare una coalizione per prevenirne la dissoluzione, impedendo qualsiasi ricambio anche al prezzo di una paralisi delle sue capacità di governo.
La proposta di premierato ha ulteriori difetti. Prevedere la possibilità di un cambio di Premier nell’ambito della stessa maggioranza, che aveva sostenuto il Premier sfiduciato rischia di vanificare la stabilità obiettivo della riforma, dando a qualsiasi partito della maggioranza – anche ai minori – il potere di decidere la sorte di Premier e legislatura, come accadeva nella Prima Repubblica ove le tante crisi non erano frutto di un cambiamento nella formula politica dei governi, ma solo di un diverso peso delle varie correnti democristiane. Se questo fosse l’esito della progettata riforma il risultato sarebbe peggiore del male.
Il premierato presenta un ulteriore problema. Anche ignorando che la diversità di funzioni rende arbitrario trasferire a livello nazionale la forma di governo adottata per Comuni e Regioni, occorre sottolineare i rischi di qualsiasi forma di «governo a termine fisso», di un governo cioè che sia eletto e resti in carica per un periodo di 5 anni qualsiasi cosa accada. La stabilità è un valore, ma anche la possibilità di cambiare un governo quando questo si dimostri inadeguato.
Gli esempi non mancano. Per stare ai più recenti, come negare che il semi-presidenzialismo francese veda oggi Macron in minoranza nel voto popolare e con una maggioranza di governo tenuta in vita solo dalla impossibilità delle opposizioni di destra e sinistra di convergere su di una comune mozione di sfiducia? E come dimenticare che George Bush Jr., eletto con una esigua maggioranza di poco più di 500 voti in Florida, poté scatenare la seconda guerra del Golfo sulla base di false informazioni venutegli dai servizi rivelatesi poi false? Tale guerra portò alla fine dell’Iraq, ma anche alla destabilizzazione dell’intero Medio Oriente, con l’espansione in Siria e Iraq del terrorismo dell’ISIS, e un forte indebolimento degli USA nell’intera area. In un sistema parlamentare Bush Jr. sarebbe stato sfiduciato; in un governo a termine fisso, come il presidenzialismo o il premierato, anche un governo manifestamente inadeguato resta invece in carica, e la stabilità di governo diviene una fonte di danno.
In conclusione, governi a termine fisso si prestano a sistemi politici stabili, non polarizzati, ove maggioranza e opposizione convergono sulle politiche fondamentali (assetto costituzionale, giustizia, politica estera, difesa), e di lungo termine (welfare, istruzione, ricerca) che invece in Italia sono quotidiano terreno di scontro. Si aggiunga la nostra estrema volatilità elettorale: i fautori del premierato ricordino che nel 2014 avremmo eletto per 5 anni un governo Renzi, nel 2018 un governo a guida 5 Stelle, nel 2019 un governo Salvini, e che nel 2023 le elezioni hanno premiato un governo a guida Meloni, il cui futuro è legato al difficile compito di mantener fede alle tante promesse avanzate in campagna elettorale. Le nostre maggioranze si sono rivelate episodiche e transitorie. Non è il caso di costruire un nuovo sistema istituzionale su risultati così precari. Meglio varare una nuova legge elettorale che al contrario del maggioritario non imponga alleanze meramente di convenienza, ma incapaci poi di governare efficacemente. Compito difficile, ma non impossibile. E comunque necessario.

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