23 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Goffredo Buccini

Tra giugno 2018 e aprile 2019 circa 51 mila stranieri sono diventati nuovi irregolari in Italia: di questi, tra gli 11 e i 13 mila sarebbero conseguenza del decreto


Dai numeri non si scappa. E l’ennesima puntata della saga della Sea Watch si rivela, pur nella sua consueta disumanità, solo un’arma di distrazione di massa. Il problema migratorio dell’Italia, legato alla nostra sicurezza, non è in mare ma sulla terraferma, come testimonia anche l’ultimo drammatico episodio, il rogo di Mirandola. Ancora una volta le stime e i dati dell’Ispi, un istituto di studi con quasi un secolo di reputazione, ribaltano la narrazione del marketing politico. Mentre si combatte una battaglia meramente figurativa sugli ultimi 50 o 60 disperati trasportati da una nave umanitaria sulle nostre coste, con grancassa tv sui malumori di Matteo Salvini, e mentre il titolare del Viminale picchia i pugni sul tavolo del Consiglio dei ministri per far passare il suo secondo decreto Sicurezza, si delineano, proprio nei numeri, gli effetti assai controversi del suo primo decreto, varato a ottobre scorso e poi diventato legge dello Stato.
Il ricercatore dell’Ispi Matteo Villa, basandosi proprio su dati del ministero dell’Interno, evidenzia come tra giugno 2018 e aprile 2019 circa 51 mila stranieri siano «diventati nuovi irregolari in Italia»: di questi, tra gli 11 mila e i 13 mila sarebbero conseguenza diretta del decreto. Le ragioni sembrano evidenti. Cardine del provvedimento voluto da Salvini è l’eliminazione della protezione umanitaria, quella alla quale più frequentemente (forse troppo) negli anni hanno fatto ricorso le commissioni territoriali incaricate di valutare le richieste di asilo dei migranti. All’aumento dei dinieghi corrisponde un aumento degli allontanamenti dai centri di accoglienza cui, attenzione, non corrisponde affatto un eguale aumento di rimpatri. In parole semplici, al migrante che non ha più i requisiti per restare sul nostro territorio viene normalmente messo in mano un foglio di via con l’ingiunzione di lasciare il Paese: è facile capire che, senza controlli, solo una piccola porzione ottempera all’obbligo, la maggioranza finisce per strada, allo sbando, accrescendo paradossalmente la nostra insicurezza. I rimpatri sono peraltro costosi e complicati, quelli non volontari presuppongono un accordo con il Paese d’origine: noi di accordi del genere ne abbiamo solo quattro, Salvini aveva promesso un tour africano per implementarne il numero (servono contropartite da offrire, va da sé) ma del tour s’è persa ogni traccia in questa convulsa fare preelettorale.
I rimpatri vanno dunque assai a rilento. L’Ispi rileva che il governo Conte, tra giugno 2018 e aprile 2019, ha fatto peggio del governo Gentiloni tra giugno 2017 e aprile 2018, scendendo da 6.293 a 5.969 rimpatri, con un calo del 5 per cento. Salvini, prima delle elezioni del 4 marzo, aveva promesso di rispedire velocemente a casa 500 o 600 mila «invisibili», ovvero gli irregolari presenti sul nostro territorio (per effetto della pregressa mala accoglienza) secondo stime quasi coincidenti degli esperti, dall’autorevole fondazione Ismu sino alla Commissione sulle periferie. Non riuscendo a rimpatriarne che una ventina al giorno (tempo previsto con questo ritmo: quasi un secolo) e trovandosi sotto il tiro dell’alleato-competitor Di Maio all’approssimarsi delle elezioni europee, il leader leghista aveva tentato di ridurne «d’ufficio» il numero, dichiarandone 90 mila, ma ricevendo correzioni un po’ da tutte le fonti accreditate in materia.
Il tema è rovente. Non solo perché l’Ispi spiega, grafici alla mano, che di questo passo a dicembre 2020 gli irregolari in Italia saranno 718 mila. Ma perché la questione sicurezza tracima dai numeri e diventa sangue e paura. Il rogo di Mirandola, appiccato da un giovane marocchino in attesa di espulsione, può pesare sulle elezioni di domenica. Salvini, lesto a intuirne pericolosità e potenziale, rilancia subito il mantra dei porti chiusi. Ma i Cinque Stelle sembrano attribuire proprio al ministro degli Interni la responsabilità di spiegare cosa facesse quel ragazzo, che vagava in ipotermia come uno zombie lungo una strada della bassa Modenese, prima del suo raptus criminale. E da dove venisse. Era uno degli invisibili sfuggiti al nostro sistema zoppo? Un nuovo fantasma prodotto proprio dal decreto Salvini?
La sicurezza in politica è a doppio taglio. Ce lo insegna un mito assai radicato nella nostra sinistra: quello di Mechelen, la cittadina belga che, pur ospitando 128 nazionalità e 15 mila islamici su 87 mila residenti, è riuscita, in 15 anni, in un miracolo di integrazione (che tra l’altro ha abbattuto la destra dal 30 all’8 per cento). Ciò che la gauche italiana tende un po’ a sottacere è che il sindaco (liberale e centrista) di Mechelen, Bart Somers, proclamato tre anni fa «miglior primo cittadino del mondo», prima di integrare ha dato una bella stretta ai bulloni: i furti sono scesi del 41%, i furti violenti del 69, gli scippi del 94, lo spaccio di droga azzerato, i poliziotti sono stati triplicati, la città riempita di telecamere, ai nuovi arrivati vengono imposti l’uso del fiammingo, l’adesione a regole comuni di laicità e corsi per imparare cosa sia la democrazia, come ci si comporti con le donne, come funziona la polizia. Il menu di Mechelen, sicurezza e solidarietà, andrebbe insomma preso tutto insieme. Ma in un Paese come il nostro, molti sceglierebbero à la carte.

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