22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Maurizio Ferrera

Quanti equivoci sui sostegni agli indigenti, e rischia di aprirsi una guerra ideologica, capace di avvelenare il percorso della prossima legge di bilancio. Prima del Covid-19, quella che l’Istat chiama povertà assoluta colpiva già 4,6 milioni di persone, diventati 5,6 milioni nel corso del 2020

Il Centrodestra vorrebbe abolirlo, in quanto «diseducativo e clientelare» (Salvini). Anche Renzi propone un referendum abrogativo. Il Pd è disponibile a una revisione, i Cinque Stelle levano gli scudi. Sul reddito di cittadinanza (Rc) rischia di aprirsi una guerra ideologica, capace di avvelenare il percorso della prossima legge di bilancio.
È difficile comprendere perché in Italia le politiche contro la povertà abbiano da sempre suscitato diffidenze e divisioni. Negli ultimi vent’anni si sono succeduti almeno una decina di provvedimenti: un «avanti e indietro» che non ha paralleli in Europa. Nessuna politica pubblica nasce perfetta e va periodicamente rivista sulla base dell’esperienza. Ma non si può ricominciare ogni volta da capo, sennò scatta quella che gli esperti chiamano la trappola dell’insuccesso: si finisce per screditare qualsiasi proposta pragmatica con il vecchio adagio «ci vorrebbe ben altro», lasciando di fatto il problema senza soluzione.
Come ha mostrato fin troppo drammaticamente la pandemia, il rischio povertà è ancora molto elevato nel nostro Paese. Prima del Covid-19, quella che l’Istat chiama povertà assoluta colpiva già 4,6 milioni di persone, diventati 5,6 milioni nel corso del 2020. Un aumento massiccio, che sarebbe stato però molto superiore se non avessimo avuto, appunto, il reddito di cittadinanza. Certo, la riforma che doveva «abolire la povertà» è nata in fretta, con molti difetti di progettazione.
Ciò che serve oggi non è certo una sterile contrapposizione di principio, solo un buon «tagliando» basato su un pacato sapere empirico. Che cosa, esattamente, andrebbe cambiato?
Il primo aspetto da migliorare è la capacità del Rc di intercettare i veri indigenti. Fatto cento il numero delle famiglie in povertà assoluta, solo 44 ricevono il sussidio, le altre 56 no. Questo buco enorme dipende dai requisiti d’accesso. Siccome servono dieci anni di residenza legale continuativa, molti immigrati sono rimasti esclusi. Inoltre, la soglia del patrimonio e del reddito al di sopra dei quali non si può ottenere il sussidio è bassa e, quel che più rileva, è la stessa su tutto il territorio nazionale. È noto che il costo della vita è molto superiore al Nord. L’Istat usa infatti soglie diverse fra Settentrione e Meridione. La normativa del Rc non fa invece differenza. Con il risultato che il tasso di copertura nel Nord scende dal 44% nazionale al 37%, mentre nel Sud sale al 95%. Il «buco», in altre parole, riguarda soprattutto i poveri del Nord, dove peraltro risiede un maggior numero di immigrati. Il tagliando del Rc dovrebbe perciò modificare i requisiti di residenza e soprattutto calibrare le soglie di accesso in base all’area territoriale.
Il secondo aspetto critico è speculare al primo: il Rc esclude molti poveri, ma finisce anche a molti «non poveri» (assoluti). Non si tratta tanto di clientelismo e frodi (un po’ ci sono anche quelle), quanto piuttosto di regole mal disegnate. Quando si varò la riforma, alla fine del 2018, i Cinque Stelle s’impuntarono sulla promessa simbolica di 780 euro al mese (per un nucleo composto da una sola persona) come linea del Piave. Stanti i vincoli sulle risorse totali disponibili, le soglie per le famiglie numerose furono così fissate a livelli troppo bassi. Il tagliando deve ricalibrare gli importi, riducendo quelli per le famiglie di una o due persone e aumentando quelli per famiglie numerose.
Vi è poi un terzo problema, che riguarda l’occupazione. La riforma del 2018 presentò il Rc anche come misura di inserimento lavorativo, in modo che i beneficiari «non stessero sul divano» a spese della collettività. Quella mossa ha tuttavia creato aspettative irrealistiche. Molte persone in povertà assoluta non sono inseribili, necessitano di percorsi di inclusione sociale come premessa all’eventuale lavoro (pensiamo alle madri sole, alle persone con disabilità parziali, con deficit educativi e di salute). Inoltre, i nostri servizi per l’impiego sono notoriamente poco efficienti ed efficaci, a dispetto del frettoloso reclutamento dei navigator. Solo un terzo dei beneficiari potenzialmente occupabili ha siglato il «patto di lavoro» con i centri per l’impiego. E meno della metà di questi ha effettivamente trovato un’occupazione.
Anche Francia o Germania faticano a inserire nel mercato del lavoro i beneficiari di reddito minimo. Il problema di questi Paesi è però meno grave. Hanno meno poveri da sussidiare, perché le loro economie mettono a disposizione più posti di lavoro, anche due per ogni nucleo familiare. Nel Sud Italia sono occupati solo 44 persone su cento adulti. La media europea è 67. Per chi non ha lavoro, il reddito di cittadinanza dovrebbe essere una misura temporanea di ultima istanza, un trampolino per ripartire, non un sussidio a lungo termine che ammortizza l’assenza strutturale di occupazione. Molto del catastrofismo rivolto oggi al Rc andrebbe re-indirizzato verso questo enorme problema, che affligge l’Italia da decenni. E che per essere affrontato richiede un insieme di incisive riforme capaci di trasformare l’economia del Sud, incanalandola su un sentiero di crescita sostenibile e «ricca di occupazione». Dedichiamoci a un buon tagliando, ma non confondiamo una misura di contrasto alla povertà con un farmaco miracoloso per curare il mancato sviluppo.

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