Il primo sì del Parlamento alla riforma voluta con forza dai leghisti nasconde più di un dubbio nella maggioranza: ecco tutti i nodi da sciogliere
L’ aggettivo «storico» risuona ripetutamente, nei commenti dei capi leghisti. Con qualche ragione. La prima approvazione, in Senato, della riforma sull’autonomia differenziata delle regioni avviene nella scia dei referendum di Lombardia e Veneto nell’ottobre 2017; e di un’affermazione trionfale contro il cosiddetto «centralismo romano» che fu considerata come il surrogato di una secessione impossibile. Ieri, invece, il «sì» è arrivato con rassicurazioni sulla tenuta del Paese. Di più: come un puntello che la aiuterà.
Servirà anche a «controbilanciare» l’elezione diretta del capo del governo, precisano dalla Lega; insomma, a limitare un premierato che a occhio rafforzerebbe soprattutto Giorgia Meloni. È una rilettura in chiave nazionale dell’autonomia, che è stata un po’ sgualcita dallo sventolio nell’aula parlamentare di una bandiera della Liga Veneta; e contraddetta dal coro delle opposizioni che hanno intonato l’Inno di Mameli, accusando la premier di avere «svenduto l’unità d’Italia» sull’altare dell’alleanza con il partito di Matteo Salvini. Ma lo ha cantato anche la maggioranza, a conferma di una riforma che ognuno tende a leggere in modo diverso; e che viene intossicata inevitabilmente dai veleni elettorali. Si mescolano col ricordo del 2001, quando fu la sinistra a far passare la prima riforma delle Regioni. A sinistra, quella data è stata evocata solo dal presidente dell’Anci, Antonio Decaro, sindaco Pd di Bari, per ammonire il suo partito a non dimenticare qualche sua responsabilità. Voce isolata.
Prevale la tesi di una misura «spacca-Italia». È una narrazione mirata non tanto a mettere in difficoltà la Lega, quanto Palazzo Chigi. Il partito di Salvini è riuscito a imporre la «sua» bandiera a quello della premier, patriottico per antonomasia, e a FI. E nelle dichiarazioni di FdI e dei berlusconiani si nota lo sforzo di giustificare il proprio come un passo avanti verso la modernità: sebbene a bassa voce si ascoltino giudizi meno enfatici, e si insista sul ruolo di «garanzia» che la destra non leghista si assegna per evitare una deriva anti-meridionale. D’altronde, per la compattezza di una maggioranza che scricchiola in vista delle Europee le riforme sono un balsamo, seppure temporaneo. Quello che Pd e M5S definiscono «scambio scellerato» tra premierato, autonomia regionale e riforma della giustizia, e cioè tra Meloni, Salvini e il vicepremier di FI, Antonio Tajani, è una scelta obbligata. Contraddittoria, destinata forse a rivelare i suoi limiti dopo le Europee; magari a arenarsi tra tensioni e spinte referendarie oggi imprevedibili. Ma, per il momento, è tale da schermare le frustrazioni e le paure dell’intera coalizione di destra.