Fonte: Corriere della Sera
di Antonio Polito
Autato da una comunicazione più sobria, Matteo Renzi è tornato. Tra pochi giorni annuncerà la sua netta vittoria nel voto dei circoli del Pd e si lancerà verso le primarie, dove votano anche i non iscritti. Il risultato non sembra essere in discussione, e solo una scarsa affluenza, molto sotto il livello di quattro anni fa, potrebbe a questo punto limitare l’autorevolezza del nuovo segretario del Pd come azionista di maggioranza del governo. L’operazione di rilancio sta riuscendo meglio del previsto all’interno del partito. La mitica base, o quel che ne resta, i militanti che tengono alla «ditta», stavolta sembrano preferire Renzi. Un po’ per spirito di sopravvivenza, un po’ per un’atavica paura delle scissioni, un po’ perché il segretario ha sempre ragione, fino alla prossima elezione (che tra l’altro è a giugno). Però non è rassicurante per Renzi il fatto che le parti si siano rovesciate.
Quando comparve sulla scena, era molto più popolare tra gli elettori che tra gli iscritti. Oggi invece il suo problema è opposto: una volta riconquistato il mezzo, cioè il partito, dovrà infatti trovare un messaggio per riconquistare gli italiani. Per giunta senza avere a disposizione, in un futuro prevedibile, il palcoscenico di Palazzo Chigi e delle sue slide.Quattro anni fa Renzi si presentò sul mercato politico con un messaggio di formidabile novità, fatto di tre idee-forza: rottamazione dei potenti, bonus a chi lavora, riforma della politica. La terza idea-forza è stata bruciata nel rogo referendario (insieme alla vocazione maggioritaria, caduta col ballottaggio alla Consulta); la seconda ha fatto il suo tempo (con risultati non decisivi sul piano della ripresa); e la prima può considerarsi esaurita (a meno di non cominciare a rottamare le persone messe al posto dei rottamati).
Che farà dunque ora Renzi? Dopo anni di eccessi, stavolta sembra mancare proprio la narrazione, la capacità cioè di offrire un progetto al Paese alternativo a quello dei grillini o di Salvini. Che cos’è esattamente il «lavoro di cittadinanza»? Come si può realizzare, nelle attuali condizioni di finanza pubblica, senza toccare l’Iva e senza ridurre la spesa, un taglio massiccio delle tasse per lavoratori e imprese? Quale sarà il pezzo forte della campagna elettorale? Finora non si è capito. Il Lingotto, da questo punto di vista, è stato deludente. Nel documento della mozione Renzi si respira un’aria del tipo «in questi anni ci abbiamo provato, ma dobbiamo fare di più». Un po’ come se le scelte di governo fossero state tutte giuste e fosse mancato solo il tempo per renderle vincenti.
Sulla sconfitta al referendum Renzi si mostra perfino un po’ imbronciato, come a dire: vi avevo avvisato che se vinceva il no eravamo nei guai. Ma su come si esca adesso dai guai, per esempio con una nuova legge elettorale, per ora poche indicazioni. Si tratta insomma di un messaggio in stand-by, ancora molto rivolto all’indietro, ai mitici mille giorni di governo. Soprattutto è un messaggio che concede ancora troppo alla retorica «populista», nel tentativo di domarla inseguendola, dai vitalizi a Bruxelles. Forse Renzi sta solo aspettando la eccezionale finestra di opportunità che potrebbe aprirsi per lui con le elezioni francesi. Dovesse vincere Macron, un altro discorso, stavolta insieme europeista e riformista, diventa possibile; e la nuova offerta politica del Pd si potrebbe mettere su una traiettoria più ambiziosa del tira e molla annuale per strappare uno zero virgola di flessibilità.