22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Francesco Verderami


Gli italiani in questi mesi hanno dato ampiamente prova di generosità, con un’abnegazione che è possibile ritrovare nei piccoli e grandi gesti, fino
al sacrificio personale. A un popolo che sta vivendo con dignità il dramma dell’emergenza nelle tante privazioni quotidiane, e che sarà chiamato nel prossimo futuro a ulteriori difficili prove, la politica deve saper rispondere con altrettanta disinteressata generosità. Finora non l’ha fatto.
L’appello all’unità nazionale che era stato lanciato dal presidente della Repubblica non solo non è stato raccolto ma è diventato strumento tattico del conflitto tra forze contrapposte, tutte senza eccezione impegnate a difendere il loro particulare.
La competizione è legittima, anzi necessaria in tempi ordinari. Ma questi sono tempi straordinari. E i leader politici dovrebbero prendere esempio dai cittadini, che si sono caricati la propria parte del peso collettivo. La crisi che l’Italia è già chiamata a fronteggiare non si risolverà in poco tempo. E prende corpo la consapevolezza che dalla crisi non si potrà uscire senza un governo condiviso degli sforzi, perché per fronteggiare situazioni così complesse non bastano le capacità dei singoli, per quanta volontà e determinazione possano metterci. Riconoscerlo sarebbe un segno di forza non di debolezza, né tantomeno dimostrazione di sconfitta. Vale per chi sta in maggioranza e non vorrebbe far spazio oggi all’opposizione, e vale per chi sta all’opposizione e immagina di lucrarci in attesa di essere domani maggioranza. Si tratterebbe di un’operazione miope, di cui tutti sarebbero chiamati a render conto in caso di macerie.
La generosità disinteressata sarebbe invece un segno di lungimiranza e non solo nell’interesse nazionale, ma anche nell’interesse futuro delle parti, che potrebbero offrire alla causa comune le migliori risorse delle proprie file, sapendo che la faticosa ricerca di un compromesso tra posizioni contrapposte non contaminerebbe le rispettive identità, né pregiudicherebbe la possibilità di guidare il Paese una volta terminata l’emergenza. Per la politica sarebbe piuttosto una dimostrazione di riscatto, dopo anni in cui è stata vista dai cittadini come un intralcio al benessere e allo sviluppo, come una casta profittatrice che promette ciò che non può mantenere, e al dunque come un ramo secco del sistema che — se proprio non si può eliminare — si può però ridimensionare nel ruolo e tagliare nei costi.
L’autorevolezza riconquistata apparirebbe come una forza rinnovata anche al cospetto degli altri attori internazionali e delle strutture dello Stato, chiamate a quel punto a sbloccare i grumi burocratici e a sciogliere quelle incrostazioni di potere che sono uno dei problemi del Paese. Cadrebbero così gli alibi di quanti hanno vissuto all’ombra dell’inefficienza e dell’incompetenza, scambiando l’interesse generale come l’orto personale. E sarebbe una vittoria del Paese, che si sentirebbe coinvolto senza distinzioni nell’affrontare e superare la crisi. Ecco, se è vero che gli italiani danno il meglio nelle avversità, per i partiti che li rappresentano questo sarebbe il momento di mostrarsi generosamente disinteressati, cioè caparbiamente determinati. I cittadini stanno dimostrando di saperlo fare: non si potrebbe poi chiedere il loro consenso se non si seguisse il loro esempio.

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