Fonte: Corriere della Sera
di Lorenzo Bini Smaghi
Paesi grandi, con economia diversificata e chiusa, sono meno esposti agli aumenti delle barriere tariffarie e alle ritorsioni. Se sono piccoli e aperti, come quelli europee, c’è più vulnerabilità
L’ondata di consensi contro la globalizzazione, che ha portato Donald Trump alla presidenza americana con lo slogan «America first» (prima l’America), sembra contagiare anche i Paesi europei. Se la linea politica sottostante ad «America first» è giusta per gli Stati Uniti, perché l’Inghilterra non dovrebbe adottare anch’essa un approccio basato su «England first» e la Francia su «La France d’abord», e cosi per gli altri Paesi europei, inclusa l’Italia? Se la globalizzazione è andata troppo in là, e chi l’ha governata non è stato in grado di proteggere i cittadini dagli effetti negativi, non è forse meglio tornare indietro? Recuperando sovranità nazionale si possono reintrodurre controlli al commercio, svalutare la moneta per migliorare la competitività delle imprese nazionali. Il ragionamento non sembra fare una piega. Pare addirittura condiviso dall’altra parte dell’Atlantico, che ha cominciato a tessere rapporti privilegiati con antieuropeisti come Nigel Farage o Marine Le Pen. Se si vuole tornare indietro nel processo di globalizzazione, non si possono tuttavia ignorare alcune caratteristiche fondamentali delle varie economie, in particolare la dimensione e il grado di apertura. Più un Paese è grande, e più diversificata e chiusa è la sua economia, meno è esposto ad eventuali aumenti delle barriere tariffarie e meno è colpito dalle eventuali ritorsioni messe in atto dal resto del mondo. Più piccolo e aperto è un Paese, più è esposto alle decisioni degli altri.
Un paio di esempi aiutano ad illustrare il problema
Il primo riguarda il commercio di prodotti tessili, in particolare quelli di alta gamma, che l’Italia esporta verso il resto del mondo. Un aumento dei dazi a livello globale penalizzerebbe ovviamente l’Italia, perché farebbe calare la domanda estera per i nostri prodotti. Negli Stati Uniti, dove vi è una industria tessile in grado di sostituire le importazioni dal resto del mondo, la produzione invece aumenterebbe. Dazi più elevati indurrebbero probabilmente i produttori italiani a spostarsi negli Usa, o in Cina, per avere un accesso diretto a quei grandi mercati senza subire maggiorazioni di tariffe. A trarre beneficio di tale misura sarebbe dunque l’occupazione americana, non quella italiana. Un altro esempio riguarda invece il caso di prodotti importati dall’Italia, come i cellulari, ideati in Usa e prodotti in Cina. Anche in questo caso, l’Italia sarebbe particolarmente penalizzata perché non ha un mercato interno di dimensione tale da giustificare una produzione nazionale competitiva, e non potrebbe fare altro che continuare ad importare questi prodotti, dalla Cina, dalla Corea o dagli Stati Uniti, ad un prezzo maggiore e pertanto con un trasferimento di risorse verso questi Paesi. Per gli Stati Uniti, invece, la dimensione del mercato giustificherebbe una produzione interna, anche se a prezzi più elevati, con un effetto positivo sull’occupazione.
Il risultato è diverso se i Paesi europei mantengono un’area di libero scambio tra di loro
Nell’esempio di cui sopra, le esportazioni italiane di prodotti tessili rimarrebbero libere e senza dazi verso il resto del continente, che è tuttora il più ampio mercato globale, e soffrirebbero dunque di meno dell’aumento globale di dazi. Quanto ai cellulari, le nuove restrizioni creerebbero un incentivo da parte dei produttori americani, coreani o cinesi, a produrre anche in Europa, proprio per la dimensione del mercato interno, con effetti favorevoli per l’occupazione nel continente. In sintesi, i maggiori perdenti di una nuova fase di protezionismo globale sarebbero i Paesi più piccoli e più aperti al commercio internazionale, ossia i Paesi europei. E il problema può solo aggravarsi col tempo, dato che la loro dimensione relativa è destinata a calare, se non altro per effetto della diversa dinamica demografica. Nel 2015, ad esempio, l’Italia produceva poco meno del 2% del reddito mondiale, meno della metà rispetto al 1990. Sulla base delle tendenze in atto, tra due decadi la quota italiana è prevista scendere sotto l’1%. I Paesi più grandi, con produzione diversificata e un ampio mercato interno, come Usa, Cina, India e i Paesi che con loro cercherebbero di sviluppare nuove alleanze commerciali, riuscirebbero a contenere i costi derivanti dai maggiori dazi e ad attrarre investimenti per sviluppare la produzione nazionale.
Le implicazioni per i Paesi europei — Italia inclusa — sono ovvie
Affrontare da soli il rischio di una nuova ondata protezionistica sarebbe un suicidio. Solo mantenendo l’unità, condividendo la sovranità — anzi rafforzandola — l’Europa ha la dimensione necessaria per stare al tavolo con gli altri principali attori globali, e proteggere i propri interessi in un mondo che rischia di diventare più conflittuale. «America first» rischia di essere una trappola per i Paesi europei, presi singolarmente, nella quale possono non cadere solo se rispondono uniti con «Europa first». Basta leggere i libri di storia per ricordarsi come il declino economico delle nazioni europee sia cominciato dopo il primo conflitto mondiale del secolo scorso, con le reazioni nazionalistiche di politica economica degli anni 1930 che hanno attivato un circuito perverso di svalutazioni competitive delle monete e di diffuso protezionismo. Lasciare da parte la bandiera dell’Europa, in un momento così critico a livello globale, sarebbe un errore grave, che le future generazioni non ci perdonerebbero.