Fonte: Corriere della Sera
di Angelo Panebianco
Per la prima volta nella storia della nostra Repubblica non c’è un federatore, un partito realmente capace di evitare la divisione tra il Nord e il Sud
Il «principio di precauzione», secondo il quale non bisogna correre rischi inutili, ha ben poco senso. Poiché la vita è fatta di rischi ed è spesso difficile identificare quelli inutili, per dare attuazione al principio bisognerebbe rifiutare ogni novità, scegliere l’immobilismo, la non- vita. Scendendo dai massimi sistemi alle cose di casa nostra, possiamo dire che ci dibattiamo fra un rischio incombente e uno più lontano nel tempo. Il rischio incombente è che se non ci sarà una brusca frenata finiremo nel burrone, se il governo giallo-verde non farà una giravolta (come quella del governo Tsipras in Grecia quando si trovò con le spalle al muro) non potremo evitare una deriva, e una débâcle, sudamericane. Si può avere la sensazione che il Paese sia in mano a una «banda degli onesti», guidata da rinati Totò e Peppino, che aspetta di liberarsi dei lacci e lacciuoli europei per scendere in cantina a fabbricare banconote false (nel senso che non varranno nulla anche se verranno battezzate «lire»). L’impressione è che qualcuno stia lavorando per distruggere i risparmi degli italiani con tutto ciò che ne seguirebbe. Che altro si può pensare se, con uno spread oltre quota trecento, continua lo stillicidio quotidiano di attacchi al ministro del Tesoro Giovanni Tria e ai suoi tentativi (fin qui falliti) di costituire una linea del Piave?
Che cosa dire, inoltre, quando uno dei due veri capi del governo dichiara che o i vertici di Bankitalia danno ragione all’Esecutivo oppure devono presentarsi alle elezioni? O quando l’altro vero capo dichiara che lui dell’Europa «se ne frega»? Forse non ha senso cercare di spiegare a chi ha pronunciato la frase «tra lo spread e il popolo preferisco il popolo» e a chi lo applaude, che tale espressione è paradossale: perché mentre lo spread è reale, il «popolo» invece non esiste, è un mito utilizzato dai movimenti totalitari come un corpo contundente per combattere il pluralismo su cui si fonda la democrazia liberale. Il cosiddetto «popolo» è un’aggregazione di persone diverse e che possono pensarla diversamente su tante cose (questa diversità di opinioni è ciò che giustifica e legittima la democrazia).
In caso di deriva latinoamericana non ci arriverà addosso solo un drammatico impoverimento. Diventeremo anche una democrazia illiberale. Per giunta, la democrazia illiberale è un composto instabile che, come niente, si trasforma in un regime compiutamente autoritario. Una democrazia illiberale era la Turchia di Erdogan prima del contro-colpo di Stato.
Tale dunque sembra essere il rischio incombente se il governo non cambia marcia. Ma quale sarà il rischio se e quando (fra qualche tempo) il governo dovesse cadere? Il rischio, a quel punto, è che la divisione fra Settentrione e Meridione — due società diverse alla luce di tutti gli indicatori disponibili — esploda senza possibilità di mediazioni.
Per la prima volta nella storia della Repubblica non c’è un federatore, un partito capace di tenere insieme Nord e Sud. Lo fu per decenni la Democrazia Cristiana (dominante in Veneto ma anche in Sicilia). Lo fu poi Silvio Berlusconi. Sembrava sul punto di diventarlo, in seguito, il Partito democratico nella veste di «partito della nazione».
Non è più così. Al Centro-nord dilaga la Lega, il Sud è in mano ai 5 Stelle. Vero, i 5 Stelle hanno ottenuto successi anche al Nord e Salvini ha colto alcuni buoni risultati al Sud. Ma poiché la competizione per le risorse entro il governo è fra nordisti e sudisti, è probabile che quando si voterà di nuovo gli insediamenti regionali contrapposti di Lega e 5 Stelle diventeranno ancora più netti.
I 5 Stelle, al pari di certi notabili politici meridionali, dal sindaco di Napoli Luigi de Magistris al governatore della Puglia Michele Emiliano, sono espressioni di un Sud che ha scelto di sposare l’ideologia anti-industriale. Certo, non tutto il Sud è così, c’è anche un Sud dinamico che, fra mille difficoltà, cerca di restare agganciato al carro della modernità europea. Ma è in minoranza. Il Mezzogiorno risente oggi dell’eclisse di quel meridionalismo che, dalla unità d’Italia fino a qualche decennio fa, aveva impegnato energie e cervelli nello sforzo di mettere fine a una storica arretratezza. Quel movimento di pensiero e di azione, grazie al quale fu possibile realizzare cose positive nel Mezzogiorno, oggi non esiste più. Da qui la formazione di una coalizione sociale e politica nemica dell’economia di mercato, che vuole la statalizzazione più o meno integrale di tutto, e che chiede di ridare slancio ai vecchi sistemi assistenziali. L’idea è questa: «Il Nord ci ha sempre sfruttato, ora deve mantenerci». Spiegare i 5 Stelle non è difficile: variante italiana del peronismo, sono i rappresentanti di un Mezzogiorno che chiede più Stato e più sussidi.
Il caso della Lega è più complicato. Per inciso, non ci si faccia fuorviare dai sondaggi (che le danno oggi più consensi che ai 5 Stelle). Tra le «intenzioni di voto» e i voti c’è di mezzo il mare. La Lega è in crescita ma di quanto lo è lo sapremo solo quando si voterà.
La Lega è più difficile da inquadrare dei 5 Stelle. Rappresenta una parte del Nord produttivo (anche se non soltanto quello produttivo: vedi il no alla legge Fornero), con le sue esigenze comunque opposte a quelle del Sud pentastellato: un Nord che chiede riduzione delle tasse, meno burocrazia, sostegno alle grandi opere, più sicurezza per effetto di politiche dell’immigrazione non lassiste. Ma la Lega ha anche posizioni che, apparentemente, non sono coerenti con il suo insediamento sociale: si pensi al putinismo o all’antieuropeismo spinto fino al rischio di farci scivolare fuori dall’eurozona. A conferma del fatto che le posizioni politiche non sono mai il meccanico riflesso di interessi economici.
Il governo dura perché la condivisione del potere è un fattore di stabilità. E perché, almeno se e fin quando la situazione economica non precipiterà, i compromessi sulla spartizione delle risorse (e posti) fra nordisti e sudisti, funzionano con la soddisfazione di entrambi. Ma arriverà un giorno in cui i compromessi non saranno più possibili. Allora il governo cadrà. E la divisione Nord/Sud, probabilmente, ci esploderà in faccia. Di qua un rischio incombente (se il governo dura e non cambia marcia), di là un rischio più lontano nel tempo quando esso cadrà. Non so che cosa ne pensi chi si è inventato il principio di precauzione ma, rischio per rischio, è sempre preferibile quello più lontano.