20 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Walter Veltroni

Il mondo ha ragione di seguire con il fiato sospeso la sfida americana. E se Trump, in caso di sconfitta di misura, non uscisse dalla Casa Bianca in punta di piedi?


Il mondo ha ragione di seguire con il fiato sospeso la sfida di novembre negli Usa: se le elezioni che si svolgeranno tra sessanta giorni segnassero lo stallo o la crisi della democrazia americana? E se Donald Trump, in caso di sconfitta di misura, non uscisse dalla Casa Bianca in punta di piedi come hanno fatto i suoi predecessori?
Temo che l’unica condizione in cui quest’ultimo scenario potrebbe realizzarsi sarebbe una vittoria travolgente di Joe Biden. A oggi è difficile vada così. Nella media dei sondaggi nazionali monitorati quotidianamente da RealClearPolitics Joe Biden è sopra Trump di 7,2 punti del voto popolare, più del doppio del vantaggio di Hillary Clinton alla stessa data del 2016. Come sappiamo questo è un dato importante, ma non decisivo. Trump fu infatti eletto avendo conquistato meno voti della sua avversaria. Negli Stati dai quali dipende l’elezione, i «Top Battlegrounds», il vantaggio del candidato democratico si riduce al 3,2 ed è identico a quello che aveva la Clinton quattro anni fa. E in alcuni Stati chiave, come Wisconsin, Michigan, Ohio, Pennsylvania le previsioni di voto oggi danno a Biden un vantaggio su Trump inferiore a quello che, nella stessa data, aveva Clinton. E sono tutte aree in cui, alla fine, vinse il repubblicano. Sarà l’affluenza ad essere decisiva. Comunque difficilmente ci sarà una valanga come quella del 1972 di Nixon ma neanche come quella che portò Barack Obama nel 2008 a conquistare il record del voto popolare.
Il primo presidente afroamericano ottenne settanta milioni di voti e tenne a sette punti di distacco il suo avversario, quel galantuomo di John McCain. Ma non è questo il solo fattore di rischio. Non preoccupa solo l’incertezza di una gara che può risolversi per il voto di «un condominio», come fu tra Gore e George W. Bush nel 2000.
Ci sono altri due elementi, del tutto nuovi. Il primo è dato dalle condizioni inedite in cui si voterà, per effetto della pandemia. Sarà molto più importante, rispetto al passato, il suffragio espresso per posta. Si calcola, ne ha scritto bene il Post, che i voti così espressi saranno il doppio del 2016 e che gli uffici postali americani dovranno gestire quasi ottanta milioni di schede. Il voto per posta è espresso in prevalenza da ceti sociali meno abbienti, da giovani e minoranze etniche. Storicamente è più favorevole ai democratici. Trump ha nominato da poco un nuovo capo del servizio postale che, sebbene abbia escluso pubblicamente intenzioni politiche, sta operando per ridurre l’efficienza del sistema. Trump ha detto a Fox: «Per far funzionare gli uffici postali e gestire milioni di schede elettorali hanno bisogno di quei soldi: ma se non li avranno, non potranno gestire i voti di tutti gli elettori»
Temo, spero di sbagliare, che se il voto dovesse dimostrare una prevalenza di Trump nel risultato dei seggi e, nonostante l’esplicito boicottaggio, quella di Biden nel voto per posta, l’attuale presidente non esiterebbe a far saltare il banco precipitando la democrazia americana in una crisi senza precedenti. Si aggiunga il ripetersi, dopo quattro anni, dell’allarme per interferenze russe sulla campagna. Twitter e Facebook hanno denunciato siti che agiscono per cercare di far circolare false notizie atte ad allontanare il voto più di «sinistra» dalla scelta di Biden e Harris.
Il secondo fattore è legato alla radicalizzazione del conflitto sociale, razziale e politico. Si è riproposto non per caso, in questi ultimi anni, il dramma degli afroamericani che sentono di nuovo che la loro condizione di vita e le loro garanzie di fronte alla legge non sono pari a quelle dei bianchi. Il ripetersi, ogni giorno, di atti repressivi della polizia che si concludono con la morte di un nero sembra dare corpo e sangue alla statistica che dimostra come un cittadino afroamericano conosca 2,5 volte di più di un bianco il rischio di essere ucciso dalle forze dell’ordine. La reazione ai fatti accaduti è stata violenta e ha portato a gravissimi incidenti. Trump, invece di spegnere il fuoco e riportare ordine e serenità agendo contro le sopraffazioni della polizia e contro i violenti, lo ha attizzato e i suoi sostenitori, spesso ben armati, sono persino scesi in piazza per contrastare le manifestazioni del Black Lives Matter.
Utile strategia, visto che lo svantaggio da Biden , negli ultimi quindici giorni, si è ridotto. Donald Trump è arrivato a dire: «I manifestanti violenti hanno le stesse priorità di Biden e condividono con lui la stessa agenda per la nostra nazione». È evidente il proposito di creare una radicalizzazione esasperata che schiacci i democratici in una posizione difensiva identificandoli con i violenti e faccia leva sulla paura e il bisogno diffuso di sicurezza che peraltro, agendo dalla Casa Bianca, sarebbe dovere del presidente in carica assicurare oggi ai cittadini americani.
A Biden spetta il compito difficile di farsi interprete del malessere profondo per le discriminazioni razziali e per le drammatiche condizioni di ingiustizia sociale al tempo stesso condannando le violenze e dimostrando che solo i democratici sono in grado di creare un nuovo clima politico e sociale, capace di assicurare la giusta sicurezza. Ciò che seppe fare, nei suoi anni, Barack Obama. La democrazia americana, che nella sua storia non ha mai conosciuto dittature che ne interrompessero il cammino, oggi si trova forse di fronte alla sua crisi più grave.
Nel cuore di una pandemia mondiale, con l’economia del globo in rallentamento, le democrazie in crisi e giganteschi problemi sociali e ambientali affrontabili solo da un nuovo ordine mondiale segnato dal multilaterialismo, esiste oggi il rischio che collassi la più forte e importante potenza dell’Occidente, portatrice di valori senza i quali le libertà di tutti sono in discussione. Il mondo sofferente e inquieto di questo tempo pieno di caos avrebbe bisogno di una guida mondiale autorevole, aperta, capace di coniugare gli interessi americani con quelli dello sviluppo mondiale.
Quando Trump disse, nei giorni caldi della pandemia, che avrebbe comprato da un’impresa tedesca il vaccino contro il virus solo a condizione che esso fosse fornito esclusivamente agli americani non stava difendendo il suo Paese, stava colpendolo a morte. Perché l’America ha bisogno del mondo non meno del suo contrario. Ecco perché, in questi sessanta giorni, bisogna sperare e operare perché la democrazia americana esca più forte e aperta dai suoi giorni difficili.
Noi italiani, noi europei, abbiamo molte ragioni per augurarci che gli Stati Uniti ritrovino il senso profondo del loro cammino. Ragioni che sono scritte sulle diecimila croci bianche che riempiono le colline della Normandia o sulle ottomila ospitate dal cimitero di Anzio. Erano americani e portavano la libertà, i ragazzi ai quali Roosevelt chiese di venire a combattere lontano dalle loro case per restituire agli europei la democrazia che qui era stata scelleratamente consegnata, non senza consenso e entusiasmo, a Hitler e Mussolini.
Il futuro dell’America ci riguarda da vicino. Reagan e Kennedy, Bush e Clinton non hanno alterato mai le regole della democrazia di quel Paese. Come disse Obama: «Tra democratici e repubblicani ci sono state sempre numerose differenze e non c’è nulla di male in questo. È esattamente lo scontro tra ideali che fa progredire questo Paese».
Che così sia. Ancora e di nuovo.

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