23 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Mauro Magatti

La disuguaglianza si associa al rifiuto sempre più diffuso del progresso. Più che le promesse di una rapida crescita, serve un’analisi critica dei risultati raggiunti


Sono ormai diversi anni che la promessa di benessere garantita dalle società avanzate nella seconda parte del XX secolo stenta a compiersi per un numero crescente di persone. Lo dimostrano i dati sulla disuguaglianza sociale che, già da molti anni prima del Covid, sono cresciuti un po’ dovunque (anche se non mancano vistose differenze dovute alla efficacia delle politiche di contrasto da parte degli Stati nazionali). Ma non si tratta solo di una questione economica. Certo, le disuguaglianze alla fine si traducono in un differenziale di reddito. Però la loro origini e le loro implicazioni (soprattutto quando tendono, come oggi, a diventare strutturali) sono ben più profonde: un percorso scolastico incompiuto, spesso causato da un retroterra familiare difficile; una provenienza territoriale da una delle tante periferie urbane o da una regione arretrata; una storia personale che si perde nelle tante possibilità di questo mondo e finisce per avvoltolarsi in una solitudine sempre più asfittica e malata.
Sta di fatto che c’è una quota crescente di persone, ormai deluse delle tante promesse tradite, che non crede più in parole come «progresso» o «crescita». Una sfiducia che nasce dalla sensazione di non essere più all’altezza di un mondo che diventa sempre più difficile e sfidante. Che si tratti di anziani affidati alla protezione di una pensione spesso misera o di giovani poco scolarizzati che sopravvivono con «lavoretti» che non permettono di costruire alcun curriculum, la sostanza non cambia.
Un senso di abbandono che fa perdere la speranza di poter avere ancora qualcosa da dire e fare in un’epoca come questa. E non senza ragione: riuscire a stare al passo della nostra società richiede un continuo adattamento che ha sì bisogno di uno sforzo personale, ma che ha soprattutto bisogno di contesti (affettivi, organizzativi, finanziari, istituzionali) che non sono certo alla portata di tutti.
Si potrebbe dire che la società del benessere, nel momento in cui volge al declino, produce una spinta reattiva — una pulsione di morte volta al tentativo (spesso disperato) di proteggere quello spazio di vita che si rischia di perdere — che, mentre rifiuta la modernità e tutti i suoi artefatti, trova espressione nella ricerca di un capro espiatorio su cui scatenare la propria rabbia. Sia esso l’immigrato avvertito come una minaccia o un potere occulto che, attraverso il Covid, vuole dominare il mondo.
Sarebbe un grave errore sottovalutare questo cambiamento del clima psicosociale, limitandosi a fare discorsi sul rilancio dell’economia. Non è che ciò non costituisca una parte della soluzione; ma a condizione di non dimenticare che l’esperienza quotidiana di questi mesi e degli ultimi anni dice per molti esattamente il contrario. È in questo contesto che si possono spiegare i negazionismi più assurdi, i populismi più radicali e le pulsioni violente che affiorano d’improvviso un po’ dappertutto. Al fondo, cresce l’intolleranza nei confronti della stessa modernità.
Di questo risentimento diffuso hanno approfittato alcuni imprenditori politici e alcuni gruppi religiosi che proprio su questi sentimenti costruiscono il loro consenso. Dimostrando peraltro tutta la loro improvvisazione quando si trovano ad affrontare la prova del governo.
Non serve nemmeno una «ideologia». A differenza del passato non è tanto una propaganda sistematica quella che viene sviluppata quanto piuttosto la capacità di sfruttare le caratteristiche del web che, una volta diventato pane quotidiano di milioni di persone, sviluppa alcuni effetti che solo ora impariamo a conoscere: nessuna distinzione tra il vero il falso; creazione di comunità chiuse dove si ascoltano solo coloro che la pensano allo stesso modo. Col risultato che si prende per vero ciò che l’influencer di turno sostiene, a prescindere dalla realtà delle cose.
Il Covid si innesta su questa situazione già creatasi nel decennio alle nostre spalle. Ora, quello che dobbiamo aspettarci è che questi sentimenti antimoderni siano destinati a crescere: perché è irrealistico immaginare che, per quanto possa essere veloce, l’uscita da questa crisi possa riuscire a contenere la disillusione e la rabbia diffuse.
Che fare allora? Per tentare di fermare questa spinta è necessario sviluppare un discorso che — facendo lo sforzo di ascoltare davvero le ragioni e i sentimenti di chi sta andando alla deriva — non si limiti semplicemente a promettere una pronta ripresa. Serve, piuttosto, riconoscere finalmente tutta una serie di inadeguatezze, di questioni irrisolte, di contraddizioni che il nostro modello di sviluppo si porta dietro. Non tutto quello che avevamo sperato di ottenere è stato effettivamente raggiunto, né tanto meno è stato messo a disposizione di tutti.
Per contrastare il rifiuto della modernità — cioè della scienza, della tecnica, dell’economia, della democrazia — è urgente sviluppare un approccio critico capace di apprezzare i successi ma anche di riconoscere le numerose distorsioni che le nostre società super avanzate hanno prodotto e continuano a produrre. Altrimenti, con la sua drammaticità, il Covid farà esplodere le tensioni. Senza questo approccio critico — che interpella la politica, ma anche le imprese, la scienza, la scuola, la religione — la difesa di principio di ciò che la nostra civiltà ha prodotto di buono rischia di rivoltarsi nel suo contrario.

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