Il dato di fatto è che il carattere politico delle manifestazioni, come degli slogan più risonanti, è stabilito da chi punta ad attaccare Israele, idealmente a distruggerlo, in solidarietà e comunanza con Hamas
È vero che non tutti i manifestanti pro Palestina sono antisemiti. È anche vero che oggi tutti gli antisemiti sono pro Palestina: è la loro occasione. Coloro che hanno riempito le strade delle città italiane ed europee con un desiderio sincero di giustizia e di pace dovrebbero tenerne conto. Non tanto perché si sono trovati, e si troveranno, nella peggiore compagnia. No, soprattutto per sapere in quale direzione porta la vicinanza a chi di quelle giustizia e pace non importa, anzi le vorrebbe usare per trascinare il mondo agli anni più bui del Novecento. Gli Stati Uniti, l’Europa e molti altri Paesi cercano di non ampliare il conflitto, gli antisemiti puntano ad allargarlo, anche al di là del Medio Oriente. Non è una buona idea dare loro copertura, anche involontaria.
Dicevano alcuni slogan della manifestazione inglese: «Da Londra a Gaza, faremo un’intifada» e «Palestina dal fiume al mare»(cancellazione dello stato israeliano). A Birmingham, un cartello citava l’articolo 7 della Carta fondativa di Hamas, nel quale si invita a uccidere gli ebrei. Il dato di fatto è che il carattere politico delle manifestazioni, come degli slogan più risonanti, è stabilito da chi punta ad attaccare Israele, idealmente a distruggerlo, in solidarietà e comunanza con Hamas. La leadership è loro, gli altri sono numerose comparse. Nel Daghestan, si cerca di massacrare gli ebrei via via che atterrano. A Roma si oltraggiano le pietre d’inciampo dei deportati dai nazisti. In Francia e in Belgio si spara. A Parigi si segnano con la Stella di Davide case e negozi di ebrei. A Vienna si dà fuoco a un cimitero ebraico. Nel Regno Unito si eleva l’allarme antiterrorismo. Ovunque, persino nelle università degli Stati Uniti, molti ebrei vengono attaccati. All’ombra delle bandiere palestinesi, prospera la voglia di dare, come minimo, una lezione definitiva agli israeliani. Non al loro governo: agli israeliani, donne, uomini, anziani, bambine. E agli ebrei.
Nei dibattiti in Italia e non solo si dice che le armi non risolveranno la questione palestinese, che ci vuole un obiettivo politico. Molto ovvio. C’è il problema che un obiettivo politico fatto di umanità, di civiltà, di convivenza deve contrapporsi all’obiettivo della distruzione dello Stato ebraico, punto irrinunciabile di Hamas come dei suoi padrini iraniani. Possibile trovare una prospettiva politica? Si dice che la questione è complessa: storia drammatica, errori palestinesi e israeliani, occasioni mancate, diritti conculcati, violenza e odio. Vero. Ma ci sono almeno un paio di punti niente affatto complicati ma essenziali per individuare un traguardo politico. Il primo è la chiarezza morale, necessaria quando si è di fronte a una guerra e si chiede la pace. Ci sono un aggressore e un aggredito. Il governo israeliano addirittura credeva, sbagliando tragicamente, che Hamas avesse rinunciato alla violenza omicida: non pensava affatto di invadere la Striscia di Gaza, aveva anzi ridotto le difese. Ora, come ha il dovere di fare ogni Stato che viene attaccato, deve ripristinare la maggiore sicurezza possibile per i propri cittadini: cercando di provocare il minore numero di morti civili.
Il corollario è che l’equivalenza molto amata nei cortei e nei talk-show è una mistificazione. Certamente un bambino ucciso dai terroristi di Hamas è un dramma come lo è un bambino ucciso dalle bombe di Israele. Ma la responsabilità delle morti è di chi la guerra l’ha voluta, dichiarata e ottenuta. Vale per le vittime israeliane e per gran parte di quelle palestinesi. Come in Ucraina, nel dramma non c’è equivalenza tra aggressore e aggredito. Altro punto chiaro: Israele non è un Paese che si nutre e si è nutrito del sangue dei palestinesi, come sembrano pensare molti dei manifestanti. Ha fatto errori in alcuni casi tragici, come con gli insediamenti indiscriminati in Cisgiordania. Ma è un Paese pienamente democratico da decenni sotto attacco per il fatto stesso di esistere: se non avesse un esercito di difesa potente, non esisterebbe più e il popolo ebraico sarebbe di nuovo esule per il mondo, esposto come in passato a pogrom e discriminazione.
È amaro constatare che le migliaia di manifestanti, soprattutto i più giovani, non considerano questi semplici ma determinanti punti prima di invocare confusamente la «complessità della questione israelo-palestinese». E che, tra l’altro, non si facciano domande su ciò che lega la barbarie dei terroristi alla misoginia, all’oscurantismo, alla crudeltà, al trattamento delle donne, al Medioevo che è il Dna dei regimi di Hamas e degli ayatollah di Teheran. A un certo punto, si dovrà arrivare a una proposta di soluzione politica del dramma di questi giorni. Quando, per quel che è possibile, la sicurezza di Israele sarà ristabilita e magari Netanyahu se ne sarà andato. Ma quel momento sarà più lontano se i manifestanti continueranno a coprire, anche non volendolo, i peggiori antisemiti tornati in attività piena dopo ottant’anni. Non manifestiamo assieme a loro. Perché, come piace dire al segretario generale dell’Onu ma a rovescio, «ciò che accade, non accade nel vuoto».