L’attuale crisi trova la sua principale causa nel cambiamento dettato dalla velocità e dalla crisi della globalizzazione
La crisi della democrazia e la ragione dei popoli. L’idea che sia in essere una crisi della democrazia è oggi diffusa e discussa in tutto il mondo occidentale. Una crisi provata dai grandi numeri delle astensioni elettorali e simmetricamente dai decrescenti numeri del voto espresso dai cittadini. Una crisi che si dice e si scrive avrebbe causa nei popoli, non sufficientemente istruiti; nei partiti politici e nelle parti sociali, sempre meno organizzati; nei media, mancanti nella loro funzione formativa; nelle leggi elettorali, che prevedono liste preconfezionate. Pensare in modo diverso sarebbe “populismo”.
Quanto segue è invece populista, populista perché è ricerca della ragione dei popoli, perché della crisi della democrazia per nulla o per poco sono colpevoli i popoli. La cascata dei fenomeni in corso è infatti ed in realtà molto più vasta e complessa e perciò non spiegabile solo in termini prevalentemente domestici.
Nel luglio del 1989, anno bicentenario della «Rivoluzione francese», ho scritto un articolo che il Corriere ha pubblicato sotto il titolo: «Una rivoluzione che svuoterà i Parlamenti». Come la gloriosa rivoluzione del 1789 era stata in Europa e non solo in Europa origine delle assemblee nazionali, e con ciò la base delle democrazie moderne, nel 1989 si (pre)vedeva l’inizio di un opposto processo politico, notando che si stava spezzando la catena politica fondamentale, la catena Stato-territorio-ricchezza. La ricchezza, allora solo nella sua parte più strategica ed affluente, comunque già stava uscendo dai confini nazionali per entrare nella repubblica internazionale del denaro. La caduta del muro di Berlino sarebbe venuta nel novembre successivo e con questa avrebbe avuto inizio la globalizzazione, l’ultima realizzata utopia del ‘900.
Nel dominio politico, la globalizzazione poneva il mercato sopra, e tutto il resto sotto: gli Stati ed i popoli.
Nel dominio tecnico, una volta portato internet fuori dai forzieri militari in cui prima era chiuso, veniva sviluppandosi sulla rete il passaggio dal vecchio «cogito ergo sum» ad un nuovo esistenziale e rivoluzionario «digito ergo sum».
Mai nella storia un cambiamento così forte è stato in realtà in un tempo così breve ed un cambiamento che ora si fa drammatico proprio con la crisi della globalizzazione, in un mondo che si sta frammentando così che oggi, come è stato nel ‘500, “Time is out of joint” (Shakespeare, Amleto).
La crisi della democrazia, crisi che dappertutto stiamo vedendo e vivendo trova in realtà la sua principale causa proprio in questo salto d’epoca. E non per caso, ma proprio per questo è crisi generale nel mondo occidentale.
Un tempo i partiti e le persone che si candidavano nelle campagne elettorali erano votati per la loro reale o magari solo annunciata capacità di risolvere problemi che comunque, per origine, per natura, per dimensione erano comunque o soprattutto problemi nazionali e perciò problemi risolvibili dalla politica nazionale, semmai questa talvolta drogata dal ricorso ai debiti pubblici.
Oggi non è più così. Con la globalizzazione e con la sua meccanica universale la natura e l’origine dei problemi politici è uscita dai confini nazionali, portando con sé una nuova tipologia di angosciosi problemi esistenziali, dentro società stressate, straniate e traumatizzate in sempre meno composti caleidoscopi sociali. In specie, in un mondo che si è fatto globale, una quota enorme dei problemi che sono sentiti e temuti dai popoli vengono da fuori o dal futuro, vengono dalla finanza internazionale, che può divorare i risparmi; vengono dalla paura per le migrazioni; vengono dalle macchine ruba-lavoro portate dalla così detta intelligenza artificiale. E da tanto altro.
La realtà è che nel nuovo mondo globale il potere, un potere che un tempo era proprio ed esclusivo degli Stati e dei loro parlamenti, è stato ed è via via perso dalla «vecchia» politica e preso da entità diverse e nuove. Dal «mercato finanziario internazionale», che a colpi di spread può assumere la forma eversiva tipica di un fascismo bianco. O dai «giganti della rete» che, in forma post moderna, fanno oggi quello che all’origine facevano i vecchi Stati: facevano le strade, garantivano la libertà, battevano moneta. Oggi pare lo stesso, con le autostrade informatiche, con le agorà telematiche, con le monete virtuali.
Oggi, se nel bene ma anche nel male la realtà è globale, la politica e la democrazia non possono restare od essere locali. E’ in specie per questo che oggi l’Europa, la patria della democrazia moderna, può essere il luogo sperimentale per il ritorno della politica e della democrazia. Può essere questo in Europa se lasciamo da parte le correnti usurate litanie politiche, se invece allineiamo il voto che sta per essere espresso per il Parlamento europeo al sentimento oggi più diffuso tra tutti i popoli europei. Può essere questo se allineiamo l’offerta politica al bisogno che oggi è primario per i popoli: la sicurezza. Come icasticamente scritto nel “Manifesto di Ventotene (1941)”: “Una politica estera europea” ed “Un esercito europeo”.