22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Paolo Valentino

Sarebbe stata la cancelliera in persona a imporre la svolta al capogruppo che era stato molto più possibilista nei confronti di Orbán

È un voto storico, quello con cui il Parlamento europeo ha avviato la procedura contro l’Ungheria di Viktor Orbán, prevista dall’articolo 7 del trattato nei casi di violazione dello Stato di diritto. Non solo perché è senza precedenti, l’unico altro caso essendo quello lanciato nei confronti della Polonia dalla Commissione europea. Ma soprattutto perché per la prima volta, l’Assemblea di Strasburgo si intesta un atto politico forte e coraggioso, fissando paletti e tracciando una linea rossa non negoziabile nei confronti dell’onda sovranista, di cui il premier ungherese è allo stesso tempo maître à penser e cavallo di Troia dentro il campo dei popolari. Pur tormentato e lacerato al suo interno, proprio il Ppe ha dato un contributo importante e decisivo all’approvazione del rapporto Sargentini, che bolla le leggi liberticide del governo di Budapest come «minaccia sistemica» e «rischio di grave violazione dei valori fondamentali della Ue».
Nel gruppo cristiano-democratico, lasciato libero di votare secondo coscienza, solo due delegazioni nazionali, quella ungherese e quella di Forza Italia, si sono espresse compatte contro l’applicazione dell’articolo 7. Ma la grande maggioranza, con alcune eccezioni e diverse astensioni, ha votato la messa in stato di accusa dell’Ungheria, primo fra tutti il capogruppo Manfred Weber. Fresco candidato a guidare i popolari alle elezioni europee del 2019, considerato fin qui il vero difensore di Orbán, Weber ha sposato a sorpresa la linea dura contro il suo protégé. Fonti europee confermano che è stata Angela Merkel in persona a imporgli la svolta, dopo che nella riunione del gruppo popolare, alla vigilia del voto, Weber era stato molto più possibilista verso Orbán. È il segnale che la cancelliera non intende tollerare alcun flirt dei cristiano-democratici con l’agenda sovranista, di cui Orbán è il principale teorico e, almeno nel suo Paese, l’attento esecutore. Ma è anche il segnale che Weber comincia a pesare ogni mossa alla luce della sua scommessa politica, quella di diventare presidente della prossima Commissione: legare il suo destino a Orbán gli avrebbe chiuso per sempre ogni futura prospettiva di intesa con le altre forze europeiste, dai socialisti ai liberali.
I paletti merkeliani non tracciano però necessariamente la strada che porta il tribuno magiaro fuori dalla tenda dei popolari. Anzi, come spiega nell’intervista al Corriere il capo degli eurodeputati della Cdu-Csu, Daniel Caspary, Fidesz deve rimanerne al riparo e usare la procedura d’infrazione per difendersi e chiarire la posizione dell’Ungheria davanti alla Ue. «Se cacciassimo Orbán — dice una parlamentare del Ppe — finirebbe nelle mani di Salvini e Le Pen. Non possiamo permettercelo». Lo stesso premier ungherese ha detto chiaramente che lui dentro il Ppe c’è per rimanerci, anche se non smetterà di «lavorare per cambiarlo».
Il dibattito tra i popolari rimane aperto e vivace. Molti, soprattutto gli italiani che hanno votato contro, ora chiedono di aprire procedure d’infrazione anche contro Paesi come Malta o la Romania, governati dai socialisti e in forte odore di corruzione o restrizioni della libertà di espressione. Ma insieme al dibattito sul che fare, rimane aperta la contraddizione. Con Ovidio, i popolari europei sembrano dire a Viktor Orbán «nec sine te nec tecum vivere possum». È un rovello alla lunga pericoloso, perché il premier ungherese ha mostrato di poter influenzare l’agenda di molti governi europei, specie in tema d’immigrazione, di non voler cedere su nulla e di rivendicare con orgoglio la sua idea della democrazia illiberale. Sanzionato come potere, l’orbanismo continua a influenzarci come cultura. In questo senso, ieri Orbán ha perso. Ma ha anche vinto.

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