22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Angelo Panebianco

La decisione di abbandonare i curdi è un disastro politico. Nessun potenziale alleato degli occidentali, in nessuna area di crisi, potrà più fidarsi


Ricordate l’imperialismo americano, la «sporca guerra del Vietnam», yankee go home, e il resto del repertorio? Adesso gli americani stanno andando sul serio a casa. E, come si vede in Medio Oriente, è un patatrac. Persino coloro che sono invecchiati inveendo contro gli arroganti «gendarmi del mondo», si rendono conto che se il posto di gendarme è vacante sono dolori, qualunque teppista può fare i danni che vuole. Donald Trump, con una telefonata, ha dato il via libera a Erdogan, alla sua agognata «soluzione finale» nei confronti dei curdi siriani, ossia di quelli che erano stati gli alleati principali degli Stati Uniti nella lotta contro lo Stato islamico. Li ha ceduti (gratis) a uno che nemmeno lo ringrazierà. Trump ha subito dopo twittato un mezzo pentimento. Ma Erdogan non si è fatto impressionare (Trump, nel frattempo, è anche riuscito a dire: ma, insomma, dov’erano questi curdi mentre noi sbarcavamo in Normandia?): l’operazione militare nel Kurdistan siriano è in corso e non si fermerà fin quando gli obiettivi del dittatore turco non saranno raggiunti. Non c’è bisogno di mescolare, come fanno tanti commentatori, morale e politica facendo affermazioni come «è scandaloso, immorale, che gli americani abbandonino i curdi». Oltre a tutto, come ha osservato Paolo Mieli (Corriere, 12 ottobre) se fatte dagli inerti e imbelli europei sono affermazioni ipocrite e ridicole. È sufficiente ragionare politicamente.
L’abbandono dei curdi è un disastro politico. Come la scelta americana di trattare con i talebani in Afghanistan. Nessun potenziale alleato degli occidentali, in qualunque area di crisi, potrà più fidarsi. È quella cruciale risorsa strategica che si chiama credibilità che è stata compromessa dalla politica di Trump. In un’epoca in cui la competizione per le sfere di influenza fra le grandi potenze è ricominciata con intensità in molte parti del mondo (Europa inclusa), un’America che si gioca la credibilità offre, nei vari scacchieri, un insperato vantaggio alle potenze autoritarie siano esse grandi (Russia, Cina) o medie (Turchia, Iran).
L’invasione turca in corso dovrebbe fare riflettere su tre questioni: l’appartenenza della Turchia alla Nato, le sorti dell’Unione europea, la parabola dell’egemonia statunitense. Per quanto riguarda la Nato, non si potrà continuare ancora a lungo a fingere che la Turchia ne sia un membro come un altro. Qualcuno spera che prima o poi il regime inaugurato da Erdogan abbia fine e che la Turchia torni a essere il Paese amico degli americani e degli europei che è stato per decenni. Ma non è così probabile che la rottura, culturale prima ancora che politica, della Turchia con l’Occidente, in nome di una combinazione di islamismo e nazionalismo e del ripudio dell’eredità laica di Atatürk (il padre della Turchia moderna), possa essere riassorbita. Al momento ha ragione Daniele Raineri (Il Foglio): non è proponibile l’esclusione della Turchia dalla Nato per un’azione che è stata autorizzata dagli americani. Ma verrà un giorno, in un altro frangente, in cui l’organizzazione dovrà chiedersi: cosa abbiamo ancora in comune con la Turchia?
La seconda questione riguarda l’Europa. È sperabile, ma poco plausibile, che l’Unione riesca, in questa crisi, a smentire una convinzione diffusa: quella secondo cui non esisterà mai un’Europa politicamente unita. Nessuna unità politica è infatti possibile se chi dovrebbe unirsi non riesce a essere credibile quando si tratta di agire per provvedere alla propria sicurezza. L’attacco turco ai curdi avvantaggia ciò che resta dello Stato islamico e non è difficile immaginare che se quella organizzazione rialzerà la testa, se, ad esempio, centinaia di foreign fighters torneranno liberi, l’Europa sarà di nuovo un bersaglio, una zona di guerra, un luogo pieno di nemici da colpire con attentati a catena. Contemporaneamente, c’è da fare i conti con la minaccia di Erdogan (che ha già estorto agli europei tanti soldi) di scaricarci addosso tre milioni e mezzo di profughi se oseremo dargli fastidio. «Biasimare e condannare» non serve a nulla. Urgono contromisure. Ma non si racconti alle opinioni pubbliche europee la favola secondo cui sarebbe sufficiente un embargo sulla vendita d’armi alla Turchia. Più in generale, vedremo se questa crisi obbligherà l’Unione a dotarsi di quella «visione geopolitica» che non ha mai avuto (Danilo Taino sul Corriere di ieri) e i mezzi e la volontà per sostenerla. O se, come è probabile, ben poco di sostanziale cambierà. Per ora ricordiamo che, come pensava Machiavelli, i «profeti disarmati» non hanno futuro politico.
Da ultimo, c’è la questione della parabola della potenza americana. Il suo declino è inevitabile? Forse sì e forse no. L’America continua a essere una società molto più dinamica e più capace di innovazione rispetto alle altre grandi potenze (Cina compresa: non è sicuro che nel lungo periodo una società chiusa possa davvero surclassare una società aperta). E ciò può continuare ad avvantaggiare gli Stati Uniti anche nella competizione internazionale. Ma anche ammesso — e non concesso — che il declino americano sia irreversibile, è certo che i tempi del processo possono essere accelerati o ritardati dalle scelte dell’Amministrazione. Trump, con la sua America first, sta accelerando il processo, ha picconato le istituzioni che hanno sorretto l’egemonia statunitense dal dopoguerra a oggi, ha minato la credibilità dell’America. A tutto vantaggio delle potenze autoritarie. In Medio Oriente e altrove. Non è facile essere ottimisti sulle prossime elezioni presidenziali. Il candidato che più incarna la continuità della politica americana, Joe Biden, è anziano e poco carismatico e le primarie democratiche potrebbero premiare qualche estremista di sinistra. Trump verrebbe allora rieletto trionfalmente. Come è sempre stato negli auspici dei nemici dell’imperialismo americano gli yankee tornano a casa. Si salvi chi può.

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