Maggioranza e opposizione diano ora la sensazione di aver capito il frastuono del silenzio
I numeri assoluti e le percentuali. Nel valutare un risultato elettorale, ormai, si tiene conto solo delle seconde. Si faceva così anche nella prima repubblica, quando un incremento dello 0,5% rispetto alle consultazioni precedenti consentiva l’allegro dispiegamento delle bandiere in festa. Ma, allora, una sola percentuale tendeva a non variare. Una, ma la più importante, quella della partecipazione al voto. Che invece oggi oscilla paurosamente, da anni, verso il basso. Nella totale indifferenza del discorso pubblico, politico e non. Se c’è un indice dello stato di salute delle democrazie, è questo. Il finale del film della Cortellesi, quella scalinata piena di donne in fila per votare, la prima volta, e decidere sulla forma di Stato, ci racconta del tempo delle attese e delle speranze. I seggi vuoti nei quali tutti abbiamo espresso la nostra scelta ci raccontano un senso di tramonto.
In Italia ha votato, qui le percentuali contano, meno della metà degli elettori. Ma il dato sarebbe stato più basso, molto più basso, se non fossero state abbinate, diversamente da altri paesi europei, le consultazioni amministrative per una popolosa regione e per 3.700 comuni. Questa circostanza ha elevato fortemente una percentuale che altrimenti sarebbe stata ben più drammatica e ben più disallineata con altri paesi europei. In Francia e in Germania, senza altre elezioni a corroborare il dato, si oscilla infatti tra il 51 e il 64 %.
Partiamo dunque da qui. Le percentuali, quelle che esaltano o disperano, sono da riferire sempre a un totale. Il trenta per cento di una bottiglia d’olio non è la stessa cosa dell’analoga percentuale di una damigiana.
In Italia, confrontando le europee — ma la tendenza è la stessa anche per le altre elezioni — in cinque anni la partecipazione al voto è scesa di sei punti percentuali e, prendendo a paragone il 2009, di più di quindici. Sono stati espressi stavolta 23 milioni di voti su un totale di 49,5 milioni di elettori.
Qui c’è la prima riflessione, riflessione serena e obiettiva. Queste elezioni hanno, politicamente, quattro chiari vincitori. Fratelli d’ Italia, il Pd, Forza Italia, Avs. Gli altri, no. Gli altri hanno materia per riflettere e per correggere. Ma stiamo parlando del dato politico, che è molto, ma non tutto. E nel dato politico va segnalato che la Meloni, diversamente da Macron e Scholz, è stata premiata dal voto, percentuali alla mano.
Poi c’è una considerazione che tutti, nessuno escluso, dovrebbero fare. E riguarda i numeri assoluti, le persone in carne ed ossa. Faccio un esempio. Rispetto alle elezioni di due anni fa, elezioni politiche, solo il Pd e Avs hanno incrementato il numero degli elettori che li hanno scelti, rispettivamente di 238.000 e di 537.000 unità. Il movimento Cinque stelle ha perduto per strada più di due milioni di cittadini, FdI 615.705, la Lega 377.995.
Ma proviamo ad allungare lo sguardo: Fratelli d’Italia è passata da 1.726.189 del 2019 agli attuali 6.704.423, evidentemente incassando i dividendi della non partecipazione ai governi della scorsa legislatura e intercettando un vento di destra che queste elezioni hanno disvelato in tutta Europa. Il Pd, pur in evidente ripresa, passa nei cinque anni da 6.089.853 a 5.604.346. Ma in un passato più lontano è stato il doppio, in termini di elettori, della sua misura di oggi.
I Cinque stelle, tra le due consultazioni europee, sono passati da 4.569.089 a 2.342.533. Ma se solo si risale indietro ancora di un anno si deve ricordare che 10.737.066 di italiani dettero fiducia ai pentastellati. La Lega è passata, sempre riferendoci alle europee del 2019, da 9.175.208 a 2.095.133 suffragi espressi.
Gli uni sono un quinto di quanto erano e gli altri un quarto. In pochi anni.
Gli elettori sono esseri umani, non riducibili alla conta delle percentuali. Se non vanno a votare, per me sbagliando, è perché sono disillusi, arrabbiati, frustrati. O, peggio, perché si sentono lontani dalla democrazia e dal suo decisivo elemento di relazione con il suo funzionamento: i partiti, i sindacati, le associazioni, la libera informazione. Ci sono tre ragioni che hanno determinato il senso di disincanto che l’astensionismo conferma. La prima: il veleno, amplificato dai social, del populismo distruttivo, della demagogia imperante, della teoria secondo la quale ogni tipo di delega, consustanziale alla democrazia, è da censuare perché «uno vale uno».
La seconda è che il sistema non sembra proprio capace di entrare in relazione con la durezza di una condizione sociale che ormai divide nettamente il paese e, soprattutto, non sembra in grado di affrontarlo con l’urgenza e la concretezza necessari.
Ma la terza, non meno importante, è la responsabilità dei partiti. Per la corruzione che ha devastato la fiducia nel loro funzionamento, per la spregiudicatezza dei trasformismi, per la riduzione del potere in fine e non in mezzo, per la prevalenza del «contro» sul «per», per la rimozione di emozione, cuore, sogno, programmi in un alfabeto quotidiano ridotto alla pratica miserrima dei «gesti per l’immagine» richiesti da TikTok.
Non è un caso che oggi siano due donne, leader di governo e opposizione, a ritrovare un rapporto, persino emotivo, con il loro elettorato e a rigenerare, nelle due aree di un bipolarismo tra campi che è ossigeno per la democrazia, speranze tra i loro elettori,
Bisognerebbe parlare proprio di loro, della dissociazione silenziosa della democrazia, di quelle decine di milioni di esseri umani che pensano sia inutile partecipare al destino del loro paese. Bisognerebbe raggiungerli, casa per casa, e farsi spiegare. E spiegare.
Non è in fondo proprio questa la cosa più giusta, più bella, più utile che le comunità dei partiti politici possano fare?
Ai loro vertici spetta il compito di dare la sensazione che si è capito il frastuono del silenzio e lavorare insieme per ridare trasparenza, velocità, capacità di decisione al governo per una democraziache veda nel Parlamento il luogo non della cogestione, ma del rigoroso ed efficace controllo. Se è possibile, di farlo insieme, maggioranza e opposizione, perché sono regole del gioco, e quelle vanno sempre condivise.
Milioni di italiani si sono messi in attesa, in critica attesa. Non ignorarli è oggi un dovere democratico.