Fonte: Corriere della Sera
di Angelo Panebianco
È possibile che dopo le elezioni si verifichino cambiamenti di rilievo nella collocazione dell’Italia. Se sarà così, gli elettori lo apprenderanno a cose fatte
Come è nostro costume, la campagna elettorale in vista delle politiche del 2018 è già cominciata da un pezzo. Nel gran parlarsi addosso che fa la politica (e anche l’antipolitica) in questi frangenti, è difficile per gli elettori orientarsi, distinguere fra le parole inutili e ciò che bisogna sapere sui futuri comportamenti di coloro che saremo chiamati a votare. Per giunta, si parla molto di cose che non contano mentre si tace su quelle che contano. È discutere di nulla, ad esempio, evocare alleanze elettorali e candidati premier. Poiché voteremo con la proporzionale le alleanze elettorali non ci saranno (ciascuno cercherà di arraffare per sé più voti possibili) e chi sarà il premier verrà deciso
dopo il voto.
Mentre cercano di intrattenerci sul sesso degli angeli, molti politici non dicono nulla su cose rilevanti. Per esempio, quale politica estera farebbe l’Italia dopo il voto se vincesse questo o se vincesse quello? Quali allineamenti internazionali sceglierebbe se si formasse la coalizione di governo Y anziché la coalizione Z? Che nuovi rapporti stabiliremmo con gli Stati Uniti e con la Russia? Quali carte giocheremmo per migliorare la nostra posizione negoziale entro l’Unione Europea? Che scelte faremmo sulla cruciale (dal punto di vista dei nostri interessi nazionali) questione libica? Come ci comporteremmo con l’Egitto? E con l’Iran? Quale atteggiamento adotteremmo nei confronti di Israele?
Abbiamo due certezze. La certezza che le suddette domande sono rilevanti; e la certezza che di questi temi non si discuterà affatto in campagna elettorale. I partiti puntano (giustamente, dal loro punto di vista) sulla disattenzione dell’opinione pubblica per queste faccende e si sentono autorizzati a parlar d’altro.
In tutte le democrazie la schiacciante maggioranza dei cittadini è disinteressata alla politica estera, non vede quasi mai il collegamento (che pure c’è) fra quelle scelte e la qualità della propria vita futura. Ma ciò che differenzia l’Italia da altre democrazie è che qui da noi anche il pubblico ristretto dei più attenti, quella piccola frazione dell’elettorato che segue con più assiduità le vicende pubbliche, fatta eccezione per qualche mosca bianca, si distrae se le si parla di tali argomenti.
È un retaggio della Guerra fredda: un’epoca che combinava accese risse ideologiche e immobilismo. Esistevano i blocchi (occidentale e sovietico) e le carte erano state distribuite una volta per tutte agli albori della Guerra fredda. Le cose da fare erano chiare: conservare le alleanze, partecipare all’integrazione europea. La politica estera italiana, quel poco di politica estera autonoma che era possibile, si giocava «ai margini»: per esempio, con i giri di valzer dell’Eni di Enrico Mattei e, poi, di Giulio Andreotti in Medio Oriente. Esclusa la possibilità che le elezioni fossero in grado di determinare svolte nella nostra politica estera, l’opinione pubblica si abituò a non considerarla importante.
È una forma di provincialismo di cui non ci siamo mai liberati. Ma è anche ormai controproducente e pericolosa. A causa di questa eredità del passato, gli elettori voteranno «al buio», senza sapere quali saranno le scelte di politica estera del partito che sceglieranno. La pericolosità di ciò dipende dal fatto che viviamo in un mondo fluido e non più bloccato come ai tempi della Guerra fredda. In questo mondo fluido bisogna fare continuamente scelte le quali condizionano il nostro futuro.
Siamo sicuri che dopo le elezioni non ci saranno cambiamenti importanti nella nostra politica estera? Le due formazioni più «centriste», Partito democratico e Forza Italia (quest’ultima nonostante l’amicizia personale fra Berlusconi e Putin), insieme a pochi altri gruppi, sono obbligate dalle caratteristiche dei loro elettorati a mantenere un qualche equilibrio fra americani e russi. Invece, quasi tutte le altre forze, a destra come a sinistra, sono accesamente filorusse e (varia solo l’intensità del sentimento) antiamericane. Domani l’Italia, su questioni come l’Ucraina (o anche l’atteggiamento da tenere nei confronti della Corea del Nord) potrebbe scegliere di allinearsi alla Russia, anche a costo di entrare in collisione con gli Stati Uniti. Non mancano poi — sempre al di fuori delle formazioni centriste — sporadiche prese di posizione talvolta sconcertanti (che non arrivano però all’opinione pubblica, restano confinate in circuiti comunicativi ristretti) su questo o quel problema — si tratti di politica della sicurezza, di alleanze militari, o di come reimpostare la politica italiana in Medio Oriente. Non esistendo, a causa del disinteresse generale, veri luoghi di dibattito si resta nell’incertezza su chi farà cosa in un terreno così delicato.
Il tutto è aggravato dal fatto che la nostra elevata frammentazione politica interna può suscitare appetiti, può essere sfruttata dall’esterno: è possibile che, col tempo, varie fazioni politiche italiane ottengano appoggi e finanziamenti da gruppi esteri. Niente di nuovo. È accaduto molte volte nella nostra Penisola nel corso dei secoli. Anche all’epoca della Guerra fredda, ma allora, almeno, c’erano delle forti motivazioni ideologiche. Certe gruppi «locali» potrebbero trovare di nuovo conveniente tutelare gli interessi di questa o di quella potenza e anche, oggi, di certi ricchi finanziatori (per esempio, mediorientali). È possibile che dopo le elezioni si verifichino cambiamenti di rilievo nella collocazione internazionale dell’Italia. Se sarà così, gli elettori lo apprenderanno a cose fatte.