19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Franco Venturini

Gli Stati Uniti non vogliono essere i gendarmi del mondo. Non vogliono più essere sfruttati da Paesi ricchi che ricorrono alle forze armate Usa per proteggersi


Con l’Anno Nuovo comincia la seconda metà del mandato presidenziale di Donald Trump, ed è forse anche per questo che nelle scorse settimane il capo della Casa Bianca ha voluto chiarire le linee di una politica estera statunitense apparsa sin qui piuttosto ondivaga. La chiarezza avrebbe potuto essere uno splendido regalo di fine 2018. Ma con la velocità di un lampo, letti e valutati gli annunci del presidente, esaminati i suoi proclami pubblici, preso atto dell’abbandono degli alleati curdi in Siria e delle dimissioni del generale Mattis, lo sconforto e la preoccupazione sono subentrati alle illusioni iniziali. Soprattutto presso gli «altri» alleati dell’America, quelli che temono di diventare i curdi d’Europa.
Ora che la spensieratezza festiva ci è alle spalle, vale la pena di riflettere su quanto da Trump è stato fatto e detto. La «concessione» di quattro mesi prima di completare il ritiro delle forze Usa dalla Siria poco cambia alla sostanza delle cose, e anzi conferma il placet dato da Washington a una offensiva turca contro i curdi. Semmai Erdogan dovrà guardarsi da Assad e non irritare troppo Mosca, ed è anche per protestare contro questa voluta assenza americana dai giochi mediorientali che James Mattis si è dimesso il 20 dicembre privando gli europei di un cruciale interlocutore oltre Atlantico. Ma è sei giorni dopo, mentre visita un reparto militare in Iraq, che Donald Trump fa davvero chiarezza.
Gli Stati Uniti non vogliono essere i gendarmi del mondo. Non vogliono più essere sfruttati da Paesi ricchi che ricorrono alle forze armate Usa per proteggersi. Gli alleati sono preziosi, ma non quando i loro interessi configgono con quelli degli Stati Uniti. Un ripasso della filosofia dell’America First? Concetti già enunciati altre volte? No, non può voler dire soltanto questo un Presidente che ritiene di dover spiegare il ritiro con tradimento dalla Siria, e intanto lascia che prendano quota indiscrezioni autorevoli su un richiamo della metà dei 14.000 militari Usa oggi impegnati in Afghanistan. Più che di una ripetizione di concetti già noti, quella di Trump (e del suo quasi unico consigliere di politica internazionale, l’ambasciatore Bolton) sembra essere una marcata accelerazione isolazionista in vista delle presidenziali del 2020. Mentre diventa sempre più clamorosa l’assenza di un candidabile democratico con qualche possibilità di successo.
Si capisce, allora, che la sindrome curda sia rapidamente arrivata in Europa. Non si tratta più soltanto di capire se Trump e Xi Jinping arriveranno davvero a una tregua commerciale, o se proseguirà invece una guerra delle tariffe destinata ad influenzare negativamente l’intera economia mondiale. Si mettano pure da parte anche i sospetti autorizzati da una corrispondenza del Financial Times, secondo cui il ritiro dalla Siria è stato annunciato a Washington un giorno dopo il perfezionamento da parte della Turchia di un massiccio acquisto di missili difensivi americani Patriot, mentre sin qui Ankara aveva annunciato l’arrivo di missili russi S-400. Si trascurino, ancora, i problemi causati all’America dalla pasticciata uccisione del giornalista Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul, problemi che prima dell’annuncio Usa la Turchia alimentava quotidianamente sapendo di toccare il nervo scoperto delle ingenti vendite di armi americane all’Arabia Saudita. Mettiamo pure la testa nella sabbia in ossequio alla celebre cautela europea, ma anche così le nuove insicurezze che Trump sta proiettando su di noi non possono e non devono essere prese sottogamba.
La Nato, prima di tutto. Mentre il Presidente sbraitava e minacciava di abbandonare la baracca se gli alleati non avessero speso per la difesa almeno il due per cento del Pil (traguardo che sarà raggiunto nei prossimi anni dai più, ma non da tutti e di certo non dall’Italia), tutti i governi europei avevano trovato in Mattis quel minimo di comprensione di cui avevano bisogno. Ed era stato Mattis a ribadire costantemente che la Nato era insostituibile, ad assicurare che gli americani trattavano sì con i Talebani ma non intendevano diminuire le loro forze in Afghanistan lasciando allo scoperto i militari dei Paesi alleati (800 uomini per l’Italia), era stato ancora lui a spiegare con il collega Pompeo che se anche il trattato Inf sugli euromissili fosse decaduto gli Usa non avrebbero schierato nuovi vettori sul suolo europeo. Credibile o meno, Mattis teneva l’Europa legata al rapporto transatlantico. Cosa che a Trump sembra importare poco, ma che di certo interessa moltissimo a Vladimir Putin.
Per dirne una, è ancora credibile alla luce dei criteri enunciati da Trump quell’articolo 5 del Trattato Atlantico che in caso di attacco a un Paese dell’Alleanza prevede l’intervento degli altri (e degli Usa prima di tutti) in suo soccorso? Ai tempi di Mattis, ed erano tempi migliori, i Paesi dell’est Europa confessavano già i loro timori sollecitando la presenza fisica di soldati americani sui confini a loro dire minacciati dalla Russia. Ora quelle paure non potranno che risultare esaltate, e non si tratta più soltanto della Nato orientale. Cosa accadrebbe se le annunciate «contromisure» russe sui missili a corto e a medio raggio costringessero l’America a schierare le sue risposte atomiche sul suolo europeo? È ancora valido e funzionante, il celebrato «ombrello» nucleare americano? Oppure Trump è interessato soltanto alla Cina, e sogna un G-3 che coinvolga anche la Russia? Insomma, cosa sono gli europei per la Casa Bianca? Noi non vogliamo sentire, ma Trump, e c’era ancora Mattis, ha già risposto durante il suo viaggio in Europa: sono avversari.
Forse, allora, la testa conviene tirarla fuori dalla sabbia. Dell’Afghanistan abbiamo detto, per gli alleati sarebbe peggio della Siria ma il dimezzamento delle forze Usa è ancora in attesa di conferme. Figuriamoci piuttosto come può classificare Trump i tentativi europei di aggirare le sanzioni anti-Teheran (il semestre di grazia concesso all’Italia e ad altri sette Paesi non sarà rinnovato). E poi ci sono i disaccordi sempre più polemici sull’ambiente, le provocazioni Usa sulla Brexit, gli entusiasmi sovranisti, nazionalisti e populisti di un Bannon che si considera in missione (proprio in Italia) e forse lo è. Ora che sono stati brutalmente messi in gioco da Trump gli «interessi comuni», riproponendo in sostanza quell’allineamento subalterno dell’Europa che in altri tempi veniva giustificato dalla guerra fredda con l’Urss, il pericolo è che vada perduto l’altro concetto dei «valori comuni», un tempo vero mastice dell’alleanza transatlantica. Un problema in più, e non secondario, per l’Europa che vuole sopravvivere al decisivo semestre che si apre. Sopravvivere sì, ma senza diventare la patria dei nuovi curdi.

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