Fonte: Corriere della Sera
di Federico Fubini
Il grande investitore italo-americano Ray Dalio ha studiato diciotto casi di insurrezione negli ultimi 150 anni in Europa, negli Stati Uniti, in America Latina e in Giappone
Ogni volta che i partiti definiti populisti vincono delle elezioni, si sente ripetere la stessa considerazione: quando andranno al potere, non faranno quello che avevano detto. Non attueranno i loro programmi, perché sarebbero incompatibili con il sistema e le sue istituzioni così come le conosciamo. Non usciranno dalla strada segnata e dall’ordine costituito. Le loro promesse radicali di spesa, taglio alle tasse, dazi e chiusura dei mercati o di mettere da parte altre regole interne e sovranazionali, tutto questo è servito agli insorti per accendere i riflettori su di sé. I loro leader sanno bene che l’esercizio del potere è un’altra cosa: un’arte che richiede una dose, se non di moderazione, almeno di prudenza. È un’analisi che torna ogni volta che si affermano forze estranee al vecchio sistema. E onestamente non avrebbe senso spiegare se sia corretta o sbagliata in assoluto, neanche fosse una legge universale. Non lo è. Anche se qualcuno preferisce illudersi che sia altrimenti, la politica, la storia e l’economia non sono come la fisica: non esistono leggi immutabili, tantomeno durante una rivolta degli elettori contro il mondo di ieri. Per farsi un’idea di come potrebbe essere il futuro, esistono solo le esperienze del passato lontano e recente. Ray Dalio, il grande investitore italo-americano, ha studiato diciotto casi di insurrezione populista degli ultimi 150 anni in Europa, Stati Uniti, America Latina e in Giappone — tutti meno gli ultimi — e ha classificato somiglianze e differenze.
In diciassette casi su diciotto, dalla rivolta di Andrew Jackson negli Stati Uniti contro le élite del New England nel 1829 a quella chavista in Venezuela nel 1990, l’economia era sempre molto debole (l’eccezione è la Francia nella stagione poujadista degli anni ’50). In quattordici casi su diciotto, le diseguaglianze di redditi fra cittadini erano elevate. E in dieci casi su diciotto la crescita dei populisti aveva contribuito alla paralisi politica, che a sua volta ha alimentato l’insoddisfazione dei cittadini verso un establishment ritenuto incapace di rispondere ai loro problemi; questa frustrazione a sua volta ha rafforzato ancora di più il richiamo dell’insurrezione, in una sorta di spirale che finisce per autoalimentarsi.
L’Italia del 2018 rientra in tutti questi modelli: economia debole, diseguaglianze, paralisi. Resta giusto da capire quanto i nuovi protagonisti siano assimilabili e omologabili al sistema, una volta entrati a palazzo. Anche qui non esistono risposte certe, solo esperienze durante le quali si erano sentite le solite previsioni di relativa continuità: tutto doveva cambiare, perché tutto restasse com’era. Questi anni ci dicono però che non è andata così: penetrati nella stanza dei bottoni, gli insorti hanno sempre dimostrato che facevano sul serio e hanno cercato di realizzare i loro programmi.
Donald Trump ha tenuto un discorso moderato nel giorno della vittoria nel 2016 e si è circondato di prudenti consiglieri scelti dai vertici di Wall Street; poi però ha licenziato chiunque non la pensasse come lui e ha veramente messo gli Stati Uniti su una traiettoria protezionista. Anche dopo il referendum sulla Brexit si pensava che, pur di tutelare la City e gli interessi commerciali del Regno, Londra non avrebbe rinunciato a partecipare al mercato europeo anche se dall’esterno; invece il governo sta veramente cercando una rottura intransigente con l’Unione Europea. Anche nel 2015 ad Atene Alexis Tsipras ha veramente resistito alle condizioni di Bruxelles e Berlino, fino a oltre l’orlo del baratro. E pochi mesi fa gli indipendentisti di Barcellona hanno davvero cercato di portare la Catalogna fuori dalla Spagna e dalla Ue.
Chiamateli populisti se volete. Ma dobbiamo tutti ammettere che, seduti ai posti di comando, non sono cambiati. La convinzione, l’orgoglio e soprattutto il rapporto con gli elettori ha imposto loro di restare fedeli a se stessi. Ovviamente Tsipras e i secessionisti catalani a un certo punto hanno dovuto fermarsi, ma questa è un’altra esperienza interessante per l’Italia del 2018: in entrambi i casi la scelta di perseguire politiche fuori dal quadro europeo alla lunga si era dimostrata impraticabile. In Grecia la fuga dei risparmi verso l’estero era arrivata al punto che dai bancomat non uscivano più soldi e dalla Catalogna migliaia di imprese si erano trasferite nel resto della Spagna, per non rimanere tagliate fuori dall’area euro.
L’Italia resta lontanissima da scenari del genere, non è questo il rischio che sta correndo adesso. Ma guardiamo alle scadenze concrete per il Paese: l’anno scorso i privati hanno dovuto finanziare appena il 51% delle emissioni di debito a medio-lungo termine necessarie a far funzionare lo Stato, perché al resto ha pensato la Banca centrale europea. Quest’anno la parte che andrà coperta dai privati sale al 74% e l’anno prossimo esploderà all’85% di un programma di emissioni di debito che, solo per il medio lungo-termine, aumenterà a 257 miliardi di euro. Chiunque governi, questi numeri non possono cambiare (se non al rialzo se l’Italia farà più deficit). Siamo diversi dalla Grecia e dalla Catalogna, ma anche noi viviamo entro vincoli precisi: dipendiamo e dipenderemo sempre dalla cortesia dei nostri creditori.
Ma c’è un’ultima esperienza dei populisti di cui vale la pena prendere nota. Quando Tsipras e gli indipendentisti catalani hanno dovuto battere in ritirata sui loro programmi, i loro elettori non li hanno abbandonati. I populisti sono rimasti popolari. Forse erano stati votati per un umano desiderio di rinnovamento del ceto politico: non per fede cieca nelle loro promesse più assurde.