Oggi colpita dall’attacco jihadista è la Russia. Ma anche i Paesi occidentali hanno di fronte un nemico insidioso
L’attentato di Mosca ha dato a tanti la (falsa) impressione che le lancette dell’orologio fossero tornate indietro. Dopo la fine della Guerra fredda il mondo ha conosciuto due fasi distinte. Nella prima, la classica competizione fra le grandi potenze sembrava ormai alle nostre spalle. Era sopravvissuta solo una superpotenza (gli Stati Uniti). Nessuno Stato aveva la forza per sfidarla. Inoltre, la globalizzazione stava cambiando, o così sembrava, le regole del gioco internazionale. La connettività globale rendeva obsoleti i tradizionali conflitti fra Stati per il controllo del territorio. C’erano ancora, qua e là, conflitti territoriali locali ma apparivano a molti come sopravvivenze del passato. La conferma arrivò con gli attentati dell’11 settembre del 2001. Da quel momento sembrò che il terrorismo internazionale di matrice islamica (con Al Qaeda prima e con l’Isis dopo) fosse ormai la minaccia più seria che il mondo dovesse fronteggiare. Un nemico sfuggente, con simpatizzanti e militanti ovunque, anche in Europa. Ove furono numerosi e sanguinosi gli attentati. Il terrorismo «transnazionale» apparve, come le mafie, l’altra faccia (la faccia oscura) della globalizzazione.
Si trattava di un serpente con molte teste. Dall’Afghanistan al Medio Oriente molte di quelle teste vennero tagliate dalla spada occidentale ma la belva non morì. Continuò a espandersi in Africa e in Asia.
Ma a un certo punto smise di apparire una sfida ancora insidiosa perché il mondo, nel frattempo, era entrato in una seconda fase.
A causa del declino relativo della potenza degli Stati Uniti, dell’ascesa cinese, del ritorno della Russia alla sua antica postura aggressiva. Le anticipazioni (come la conquista della Crimea e del Donbass del 2014) c’erano già state ma, dal febbraio 2022, con l’invasione russa dell’Ucraina, apparve chiaro a tutti che il mondo aveva fatto un salto «indietro nel futuro». Una situazione sperimentata per secoli: una guerra per il controllo del territorio fra una potenza che invade e un Paese che si difende e nella quale la posta in gioco, oltre al territorio conteso, è il rapporto di forza che, a seconda di chi vincerà la guerra, si stabilirà fra le grandi potenze. Una vittoria russa in Ucraina darebbe all’invasore un vantaggio strategico a fronte delle democrazie occidentali. Una vittoria ucraina darebbe un analogo vantaggio al fronte occidentale. L’uno o l’altro esito, a loro volta, influenzeranno le decisioni dei governanti della Cina, anch’essi impegnati in una competizione con gli occidentali. Nulla di ciò è inedito. Per secoli e secoli, dalle rivalità fra le potenze (principalmente Stati europei) derivarono situazioni simili a quella attuale. Il ritorno della competizione fra le grandi potenze era, insomma, un dejà vu.
L’attentato di Mosca, improvvisamente, ci ha ricordato che nel mondo globalizzato la politica internazionale non è solo una faccenda di Stati che lottano fra loro per il controllo di territori e per l’egemonia internazionale. La nebulosa dell’estremismo islamico, mai scomparsa, ha rivendicato il suo diritto di partecipare al gioco del potere.
Entriamo così in una terza fase, aggiungendo complicazione a complicazione. C’è, e continuerà, la competizione fra le grandi potenze ma la sfida dell’islamismo radicale torna ad occupare una parte dell’attenzione dei governi. Certo, ci sono Stati che lo cavalcano. Certamente i russi hanno favorito negli anni scorsi in Africa una espansione islamica che metteva in difficoltà gli occidentali. Ma il fenomeno ha anche una sua dinamica autonoma generata dal fascino che l’islamismo radicale esercita su porzioni del mondo musulmano e che spiega la sua capacità di fare proseliti soprattutto quando riesce a entrare in sintonia con gli interessi e le esigenze delle varie comunità islamiche locali o di porzioni di esse, dal Caucaso all’Africa al Medio Oriente. Ciò che dobbiamo aspettarci è che i jihadisti cerchino di avvantaggiarsi della competizione fra le grandi potenze. E che le grandi potenze, a loro volta, scherzando con il fuoco, cerchino di sfruttare le imprese degli islamisti. Di sicuro, non si ricostituirà il fronte che, dopo l’11 settembre, comprendeva, oltre agli occidentali, anche la Federazione russa contro il comune nemico.
Oggi è colpita Mosca. Ma la sfida è particolarmente insidiosa per gli occidentali. Le democrazie non possono permettersi la brutalità della Russia nella repressione del fenomeno. Inoltre, l’Occidente è la parte più secolarizzata del mondo e ciò lo mette in svantaggio di fronte al fanatismo religioso. Non lo comprende e per questo fatica a fronteggiarlo. Come mostra l’indulgenza con cui molti europei guardano alle componenti più integraliste delle nostre comunità islamiche. È anche in quelle componenti che i jihadisti cercano appoggi e reclutano adepti.
Il mondo, dunque, diventa assai complicato nel momento in cui si incrociano la classica competizione fra Stati, ciascuno con i propri interessi e la propria ideologia, e l’azione armata di un movimento religioso «transnazionale». La sfida per gli occidentali è duplice: devono cercare di non perdere terreno nella competizione con le grandi potenze autoritarie e devono guardarsi da un nemico che non è mai facile capire dove e quando colpirà.
La democrazia, all’apparenza fragile, è dotata di grandi risorse, anche morali. Storicamente, è spesso riuscita a rintuzzare le più gravi sfide. Ciò non dà certezze sul futuro. Solo qualche speranza.