21 Novembre 2024

L’antisemitismo può essere solo condannato e contrastato: chi nega a Israele il diritto di esistere va combattuto. Ma nelle università italiane e anglosassoni non ci sono solo antisemiti

L’antisemitismo può essere solo condannato e contrastato. Dall’assalto ai passeggeri all’aeroporto in Daghestan, alla violazione della bandiera alla Fao di Roma: chi nega agli ebrei e a Israele il diritto di esistere va combattuto. Tuttavia sarebbe sbagliato considerare l’ondata di empatia per la Palestina che pervade anche l’Occidente come una pura manifestazione di antisemitismo. Che, ripeto, esiste, a sinistra come a destra, e va fermato. Ma nelle università italiane e anglosassoni non ci sono soltanto antisemiti.
Ci sono molti giovani convinti che i miliziani di Hamas, pur usando metodi inaccettabili, stiano lottando per i diritti dei palestinesi e dei popoli arabi. È a loro, a quei giovani, che possiamo e dobbiamo parlare. Per dire che stanno prendendo un abbaglio. Non soltanto Hamas ha commesso il 7 ottobre un orrendo crimine. Non soltanto Hamas usa oltre due milioni di civili di Gaza come scudo umano. Non soltanto Hamas fa il male dei palestinesi. Dietro Hamas c’è il Qatar, che tratta gli immigrati come abbiamo visto nei giorni dei Mondiali di calcio: senza tenere alcun conto non soltanto dei diritti umani figli della Rivoluzione francese, ma neppure dell’uguaglianza degli uomini di fronte a Dio, che è uno dei fondamenti dell’Islam; perché ci sono luoghi in Qatar in cui un lavoratore egiziano o pachistano o anche palestinese non può entrare, essendo riservati ai qatarini e agli occidentali, oltre ovviamente ai capi di Hamas come Ismail Haniyeh che, a differenza dei civili di Gaza, non sono sotto le bombe ma comodamente ospitati a Doha. E dietro Hamas c’è l’Iran, che tratta le donne come abbiamo visto in questi giorni: le fa bastonare a morte dalla «polizia morale» — si chiama proprio così — se non portano correttamente il velo.
Dei diritti umani, ad Hamas e ai loro finanziatori e sostenitori non importa assolutamente nulla. Vogliono prendere il potere in Cisgiordania dopo averlo preso con le armi a Gaza, trasformando una vittoria elettorale in una dittatura del terrore.

Ogni dittatura, come ogni gruppo terroristico, ha sempre una base di consenso, che è difficile da misurare, visto che il dissenso non è tollerato. Tuttavia la grande maggioranza della popolazione di Gaza oggi è di fatto ostaggio di Hamas. Che Israele sia determinato a eliminare Hamas dal Medio Oriente è del tutto comprensibile. Ma non basterà ucciderne i capi. Nella primavera del 2014 Ariel Sharon uccise in tre settimane il leader spirituale di Hamas, lo sceicco Yassin, e il leader politico, Abdel Aziz Rantissi; e Hamas si diede dei capi ancora più spietati. Per eliminare il terrorismo occorre isolarlo politicamente e finanziariamente. In questo momento sta accadendo il contrario, come dimostrano le parole — gravissime — di Erdogan, che non condivide certo i nostri valori, ma ci piaccia o no comanda il secondo esercito della Nato ed è stato rieletto presidente della Turchia cinque mesi fa con ventotto milioni di voti. Infatti Biden, che non è certo nemico di Israele, sta cercando di frenare Netanyahu, per evitare sia lo spargimento di sangue innocente, sia l’allargamento del conflitto.
Chi si sta occupando dei civili di Gaza? Non l’Egitto, che ha chiuso il valico di Rafah e rifiuta di accogliere profughi. Non la comunità internazionale, che non ha voluto o potuto aprire corridoi umanitari, anche via mare.
Chi si sta occupando dei palestinesi della Cisgiordania? Neppure loro sono un blocco monolitico. A Jenin, al Nord, è forte la Jihad islamica; a Hebron, a Sud, Hamas; Ramallah resta la sede — assaltata ogni notte e difesa dalla polizia — dell’Anp, l’Autorità nazionale palestinese, che per quanto screditata è al momento l’unico argine contro il terrorismo islamista. Per questo dalla crisi di Gaza non si uscirà soltanto con le armi.
Israele non si fermerà finché non avrà raggiunto un obiettivo militare tale da poter proclamare che il 7 ottobre è stato vendicato, e che alla fine pure questa guerra, dichiarata da Hamas, è stata vinta. Ma una prospettiva politica andrà pure aperta.
Non sono stati soltanto Netanyahu, e la maggioranza relativa dell’elettorato israeliano che l’ha sostenuto in questi anni, a illudersi che la questione palestinese potesse essere accantonata. Si sono illusi anche i governi arabi che avevano sottoscritto i patti definiti propagandisticamente «di Abramo», adesso finiti a loro volta nel cestino.
La pace si è rivelata un’illusione, dopo il fallimento di Oslo e della trattativa Barak-Arafat; ma anche l’idea di annettersi la Cisgiordania a colpi di insediamenti, come da promessa elettorale di Netanyahu, si è rivelata impossibile.
Se l’Occidente — gli Stati Uniti d’America e l’Unione europea — può ancora sperare di giocare un ruolo in questa crisi, deve aver ben chiaro chi è, quali sono i suoi valori, quali i suoi interessi. La sicurezza di Israele e i diritti dei palestinesi non sono incompatibili, anzi sono connessi. Non basta proclamare la necessità di uno Stato palestinese; nessun governante di Israele, neppure il più illuminato erede di Netanyahu, accetterà mai uno Stato palestinese in mano ad Hamas o a qualsiasi altro gruppo che non riconosca Israele, anzi sia deciso a distruggerlo.
Criticare il governo israeliano è cosa diversa dall’antisemitismo, certo. Ma nelle piazze dell’Occidente oggi si vedono sia l’odio anti-ebraico, sia l’abbaglio sulla vera natura di Hamas. E questi due inquietanti fenomeni non aiutano né la comprensione delle cose, né la coesione interna delle società occidentali: una forza di cui avremo grande necessità, in vista del tempo durissimo che ci è dato in sorte.

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