Non solo Musk, chi sono e cosa rappresentano i ministri nominati dal nuovo presidente americano
Una settimana fa l’iperattivismo di Elon Musk che metteva bocca su tutte le nomine di Trump e si prendeva il merito della bocciatura di candidati non abbastanza Maga come Mike Pompeo aveva fatto sorgere una domanda: il miliardario di Tesla e SpaceX reclama un ruolo che vada ben oltre quello di riformatore che porta efficienza aziendale nel governo, offertogli dal presidente? E Trump può condividere palcoscenico e potere con una specie di copresidente?
Musk, il personaggio non eletto più potente di tutta la storia americana, rimarrà una figura rilevante nella nuova era Trump (chiedere al suo rivale Sundar Pichai, capo di Google, che se l’è trovato al telefono quando ha chiamato il presidente per complimentarsi). Lui e gli altri tycoon tecnoautoritari della Silicon Valley, poi, già pensano a un dopo Trump nel quale conteranno di più, soprattutto se il successore sarà JD Vance, il loro uomo. Ma per ora il leader conservatore tiene tutti in pugno. E la scelta dei ministri — diversissimi per estrazione e livelli di competenza, spesso scarsa o assente, ma col tratto comune della fedeltà assoluta al capo — ci riporta alla realtà emersa più di un anno fa, quando trapelarono le prime indiscrezioni sul lavoro della Heritage Foundation e di altri «pensatoi» della destra (centrale il First America Policy Institute) impegnati a preparare programmi e selezionare dirigenti per il Trump 2: stavolta lui vuole il controllo diretto di tutti i centri di potere dell’esecutivo.
Molti analisti tentano di spiegare i tanti annunci sconcertanti di questi giorni, la scelta di personaggi incompetenti (e a volte inquietanti) per delicatissime funzioni di governo con le teorie più diverse: Trump che non vuole amministratori ma comunicatori telegenici (sei star della Fox, la rete «amica», tra ministri e capi di agenzie federali, dal Pentagono ai Trasporti, alla Food & Drug Administration). O Trump che ha costruito una squadra ideologicamente eterogenea(dall’ultraconservatore Russell Voight all’abortista Robert Kennedy passando per un capo del Pentagono, Pete Hegseth, maschilista, sospettato di abusi sessuali, che tratta i criminali di guerra da eroi, ma anche per un ministro del Tesoro, Scott Bessent, gay e amico di George Soros, incarnazione del demonio per i trumpiani) con due obiettivi: allargare la tenda conservatrice fino a mettere sotto lo stesso tetto mercatisti e sindacalisti per battere il fronte progressista e seppellire definitivamente il vecchio partito repubblicano di Bush, Romney e Cheney coi suoi valori fondanti: mercati aperti, rigore nella spesa pubblica, America che interviene ovunque nel mondo, immigrazione benvenuta perché offre alle imprese manodopera a basso costo.
Qualcuno in America paragona il nuovo esecutivo ai governi di coalizione europei nei quali convivono esponenti di partiti molto diversi. Con una differenza: in Europa il premier è spesso un primus inter pares mentre in America i ministri sono semplici funzionari che possono essere sostituti dal presidente in ogni momento. E Trump, che tiene tutto insieme col collante Maga, ha detto chiaramente fin dalla campagna elettorale che stavolta non tollererà rifiuti di obbedire ai suoi ordini perché illegali: non vuole più sentirsi dire da un generale o da un ministro che non può usare l’esercito contro gli immigrati o contro i manifestanti perché la Costituzione lo vieta.
E se il ministro, come nel caso di Hegseth, è un personaggio inconsistente, tanto meglio: i suoi dipendenti capiranno che a comandare è direttamente il presidente.
Trump non ha trattato tutti allo stesso modo: agli Esteri e al Tesoro ha mandato personaggi competenti e che godono di un certo prestigio (il senatore Marco Rubio e il finanziere Bessent, apprezzato dai mercati finanziari). Per il resto si è affidato ai due criteri da tempo annunciati: disruption e retribution. Distruzione di politiche come quelle per l’ambiente o di protocolli sanitari obbligatori per le pandemie: nella logica trumpiana vezzi ideologici dei progressisti che limitano le libertà e frenano l’economia.
La retribution, invece, è l’annunciata vendetta contro quello che lui chiama il deep state: i poteri occulti del sistema giudiziario, dell’apparato militare e dei servizi segreti che avrebbero tramato contro di lui (o che si sono limitati a non eseguire ordini illegali). Le criticità per la sicurezza nazionale e per il futuro della democrazia americana sono concentrate qui. E Trump ha destinato i personaggi più squalificati e inquietanti proprio ai tre dicasteri chiave ai fini della sicurezza del Paese e della sua tenuta democratica: la Giustizia — vale a dire il controllo delle polizie, dell’FBI e dei tribunali — per la quale aveva scelto lo scandaloso Matt Gaetz. Poi la Difesa affidata al giornalista della Fox Pete Hegseth che, come Trump, considera la sinistra americana un «nemico interno» più pericoloso della Cina o della Russia. Infine la supervisione dei servizi segreti affidata all’ex deputata democratica Tulsi Gabbard, passata da qualche mese con Trump. Non ha alcuna competenza in materia e la sua ammirazione per Putin e per il dittatore siriano Bashar Al Assad l’ha fatta finire nella “lista nera” stilata da quell’intelligence che ora dovrebbe coordinare (e, nelle intenzioni di Trump, smontare).
Il Senato, al quale spetta la ratifica delle nomine presidenziali, ha respinto l’impresentabile Gaetz che ha ritirato la sua candidatura. Ora molti sperano che i senatori repubblicani tengano duro anche su Hegseth e Gabbard. Secondo altri quello di Gaetz resterà un caso unico. Ma anche un altro stop del Senato potrebbe non cambiare molto: saltato Gaetz, Trump l’ha sostituito con l’ex procuratrice della Florida Pam Bondi. Più competente e stimata, avrà la ratifica del Senato, ma è anche lei pronta a seguire il leader ovunque: nel 2020 ha denunciato quella di Biden come un’elezione-truffa. Sostenendo successivamente che i procuratori che hanno indagato su Trump andranno a loro volta indagati.