Siamo il Paese con il consumo pro capite (215 litri a testa al giorno) più alto della media europea (125). La perdita dei nostri acquedotti, seppur lievemente migliorata, è del 42 per cento
Il Figliuolo dell’acqua non c’è ancora ma come commissario all’emergenza siccità dovrà lavorare più duramente — e molto più a lungo — del generale degli alpini protagonista della campagna vaccinale.
Il decreto legge, varato il 6 aprile dal Consiglio dei ministri, ha un solo, non secondario, problema: quello delle coperture finanziarie. Le risorse indispensabili per adeguare le infrastrutture e potenziare il servizio idrico nazionale vanno trovate rimodulando i piani di spesa di altri investimenti già messi a bilancio. Non semplice. Il provvedimento è comunque entrato in vigore il 15 aprile. Istituisce una cabina di regia, presieduta dalla presidente del Consiglio, che potrà avvalersi di cinque esperti (pagati fino a un massimo di 50 mila euro lordi l’anno). Il nuovo commissario, che verrà nominato probabilmente alla fine della settimana, dovrà completare entro un mese un’attenta ricognizione delle opere più urgenti. Eserciterà poteri sostitutivi nei confronti di amministrazioni locali e non solo. Semplificherà le procedure. Un compito titanico. In Italia vi sono 30 mila enti, 10 mila uffici. Un intreccio diabolico di competenze locali e nazionali. E, come segnala il rapporto Water Economy in Italy, non esiste una mappatura di tutti gli usi. Il servizio idrico integrato, ovvero acquedotti, fognature e depurazione, su cui esercita la propria sorveglianza l’Arera l’autorità di settore, riguarda solo il 20 per cento del totale dei prelievi.
L’urgenza è assoluta perché la mancanza di acqua è drammatica; i segni della desertificazione di intere aree dolorosamente visibili; le condizioni di alcune filiere agricole potenzialmente disastrose. Eppure nel dibattito pubblico – e ciò interroga la nostra coscienza civica – prevale un colpevole e inspiegabile fatalismo che rasenta l’irresponsabilità collettiva e individuale. Basta che piova un po’ e subito l’emergenza scompare. Il dissesto idrogeologico purtroppo no, peggiora. Secondo l’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change) viviamo in una delle aree, nelle quali le anomalie climatiche saranno, nei prossimi anni, superiori alla media mondiale.
Siamo il Paese con il consumo pro capite (215 litri a testa al giorno) più alto della media europea (125). La perdita dei nostri acquedotti, seppur lievemente migliorata, è del 42 per cento. L’acqua piovana — ne abbiamo il 20 per cento in meno rispetto al secolo scorso — la raccogliamo e la sfruttiamo solo al 10 per cento. Gli invasi sono pochissimi. La loro realizzazione non piace alle comunità. Disturbano come le pale eoliche e gli impianti fotovoltaici. L’articolo 6 del decreto prevede che le vasche di raccolta dell’acqua piovana a uso agricolo, fino a un volume massimo di 50 metri cubi, possano essere eseguite liberamente. L’irrigazione in agricoltura è quasi tutta a scorrimento e per canali in terra. Inefficiente a dir poco. Non si potrà andare avanti a lungo così, pena la sopravvivenza di tante colture e il destino commerciale di molti prodotti tipici. Solo il 5 per cento delle acque reflue depurate è impiegato a fini agricoli o industriali. L’articolo 7 ne favorisce l’uso. È sufficiente un’unica autorizzazione che certifichi la sostenibilità sanitaria e ambientale. L’acqua desalinizzata è riutilizzata solo per lo 0,1 per cento contro il 7 per cento della Spagna. L’articolo 10 prevede minori ostacoli agli impianti di desalinizzazione, assai difficili da realizzare in base alla cosiddetta legge «Salvamare».
Sotto sotto, siamo ancora convinti che l’acqua sia talmente abbondante da essere considerata sostanzialmente senza valore. Si può prendere a piacere. Anche rubarla. Basti solo pensare che il provvedimento appena varato dal governo Meloni si propone di contrastare (articolo 12) l’estrazione illecita di acqua, intervenendo sul regime sanzionatorio che risale a un regio decreto del 1933! Come segnala un articolo sul Sole 24 Ore, di Manuela Perrone, con 61 tariffe diverse l’Italia è il Paese che ricava il minor gettito d’Europa. Abbiamo scelto, con un referendum nel 2011, che l’acqua resti pubblica, ma là dove la gestione è in economia, cioè affidata ai Comuni, l’investimento medio nel 2021 è stato di 8 euro ad abitante. Dove operano gruppi industriali, a capitale pubblico o privato, è risultato, invece, di 56 euro ad abitante. La media europea è di 82 euro.
C’è poca concorrenza, troppa politica. Ed è una delle ragioni che hanno spinto la multinazionale francese Veolia a trattare la vendita a Italgas delle società idriche di Campania, Lazio e Sicilia. Gli effetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che destina oltre 4 miliardi, non sono ancora visibili ma con un investimento medio per abitante così basso si favoriscono la desertificazione, la risalita devastante del cuneo salino nei fiumi. La partita del commissario è persa in partenza. Si è di fatto complici del riscaldamento climatico. Ma non è solo una questione ecologica, di sensibilità ambientale. È anche una grande sfida tecnologica e agroindustriale nella quale le nostre aziende, pubbliche o private, possono giocare, ancora di più in un contesto concorrenziale, un prezioso ruolo innovativo. Certo non i piccoli Comuni. Da soli. Occorre uscire al più presto da una costosa trappola ideologica. Ovvero l’idea romantica che l’acqua pubblica sia di per sé abbondante e a buon mercato. E che la gestione di quello che altrove è «oro blu», si possa lasciare semplicemente al caso. O alla Divina provvidenza.