22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Angelo Panebianco

Sia Forza Italia che il Partito democratico sono figli del sistema maggioritario, ma nel nuovo contesto elettorale serve un capo carismatico, come Berlusconi, che ha più spazio di manovra di Renzi


Perché in questo caotico «ritorno al futuro», mentre si consuma il passaggio dall’età del maggioritario all’età del proporzionale e vengono rispolverati gli antichi riti proporzionalistici, Forza Italia sembra in grado di adattarsi ai nuovi tempi con relativa facilità, mentre il Partito democratico rischia l’autodistruzione? Entrambe queste formazioni sono figlie della stagione maggioritaria. Forza Italia irruppe nella politica italiana quando quella stagione prese il via (1994). Il Partito democratico nacque in seguito, per fusione fra post-comunisti ed ex sinistra democristiana, perché, in regime di maggioritario, le aggregazioni sono premiate e le divisioni penalizzate. Per alcuni anni la formula del Pd funzionò. Poi, quando quel compromesso fra reduci si logorò, irruppe sulla scena un capo carismatico che sbaraccò le nomenclature e per un po’ ebbe il partito in pugno.
In ogni caso, Forza Italia e Partito democratico, figli del maggioritario, si differenziano sia dalla Lega (nata nella precedente età proporzionale e che, all’epoca della svolta dei primi anni Novanta, non promosse ma subì il maggioritario) sia dai Cinque Stelle, la cui ascesa, mandando all’aria il gioco bipolare (centrosinistra contro centrodestra), preannunciò il tramonto della democrazia maggioritaria. Perché dunque Forza Italia sembra in grado di sopravvivere nella nuova stagione con più facilità del Partito democratico? Come sempre, è una questione di leadership. Forza Italia, creatura di Berlusconi, è ancora, nonostante età e traversie, sotto il suo controllo. Il Partito democratico invece è guidato sì da un capo carismatico ancora forte (come hanno mostrato le primarie di quel partito) ma comunque indebolito da alcune sconfitte, quella referendaria in primo luogo. È un partito che ha già subito una scissione e che, nella nuova stagione, rischia ancora più grosso.
Per capire quali siano le differenze fra i due partiti si pensi a cosa, presumibilmente, accadrà dopo le prossime elezioni. In regime di proporzionale le alleanze di governo si fanno dopo il voto, non prima. Ebbene, in quel momento (tranne nell’improbabile caso di una strepitosa vittoria del Partito democratico), quando si tratterà di negoziare la formazione del governo, Berlusconi si troverà in una condizione decisamente migliore di Renzi. Perché potrà scegliere, a seconda delle convenienze e delle rispettive forze parlamentari, se allearsi con la Lega oppure con il Partito democratico. Nell’uno come nell’altro caso il suo partito non potrebbe fare altro che seguirlo. In una situazione assai diversa si troverà invece Renzi. Come si capisce già in questi giorni. Quando, insieme agli scissionisti, anche l’opposizione interna al Pd dice che, dopo le elezioni, va esclusa l’alleanza con Berlusconi, sta in realtà sottintendendo (senza bisogno di dirlo, poiché la proporzionale consente ogni genere di ipocrisie) che, dopo il voto, il Pd dovrà negoziare con Grillo. Mentre Forza Italia sarà pronta ad allearsi con chi deciderà Berlusconi, il Partito democratico subirà probabilmente lacerazioni interne e feroci scontri fra i proponenti di opposte alleanze. Salvo nel caso — ma è tutto da verificare — che Renzi riesca a fare eleggere solo parlamentari a lui fedeli. In caso contrario, il rischio della frantumazione del partito potrebbe diventare molto alto.
La morale è che mentre Forza Italia è (al momento) perfettamente a suo agio nelle inedite vesti di campione del proporzionale (Berlusconi ha appena invocato di nuovo l’adozione del sistema elettorale pseudo-tedesco), il Partito democratico potrebbe invece non sopravvivere al cambiamento. Mentre Forza Italia può mutare pelle, il Partito democratico non è in grado di farlo. Non è solo per una questione di ambizioni personali (che peraltro sono il sale e il motore della politica) che Renzi non può rinunciare a proporsi come candidato premier per il dopo-elezioni. È ovvio che, a meno di un grande successo elettorale, non sarà lui il premier: il premier verrà designato al momento della negoziazione fra i partiti. Ma se rinuncia, come molti lo esortano a fare, a chiedere per sé la premiership, egli sarà costretto a dichiarare ufficialmente esaurita la mission che giustificò la nascita del Partito democratico e la sua esistenza successiva: quella di un partito costruito intorno a una leadership il cui scopo è battere elettoralmente gli avversari e prendersi il governo.
Per questo, difficilmente, nella stagione politica che verrà dopo le elezioni, il Partito democratico (la parte che si riconosce in Renzi) potrà rinunciare al tentativo di imporre di nuovo una qualche forma di maggioritario. Ma, si dice, non servirà a nulla. Per l’opposizione di tutti gli altri, Berlusconi per primo. Forse. E forse no. Se le elezioni dovessero risolversi in un netto vantaggio per Forza Italia rispetto alla Lega di Salvini, allora anche Berlusconi potrebbe trovare di nuovo conveniente rispolverare l’antica vocazione maggioritaria. Ma c’è anche un’altra ragione, ancor più forte. In regime di proporzionale Berlusconi non potrà mai optare per l’auto-pensionamento. Senza di lui Forza Italia sarebbe in condizioni persino peggiori del Partito democratico. Forza Italia senza Berlusconi, in regime di proporzionale, avrebbe ore e minuti contati: non ci sarebbe nessuna possibilità di tenere insieme, nello stesso contenitore, i suoi tanti cacicchi. Con il maggioritario, per le costrizioni che esso impone alle forze politiche, Forza Italia potrebbe forse superare la crisi di successione. Con la proporzionale, un meccanismo che premia le scissioni, quasi certamente no.

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