22 Novembre 2024

Le fasi di maggiore stabilità sono quelle dominate da forze centriste, che dispongono della flessibilità che permette di stipulare gli accordi necessari per governare società complesse

Come ha mostrato da ultimo il ballottaggio della settimana scorsa in Georgia, si può dire, alla Mark Twain, che «la notizia della imminente morte della democrazia americana è risultata fortemente esagerata». Con la vittoria del candidato democratico Raphael Warnock contro il candidato trumpiano Herschel Walker, l’amministrazione Biden consolida la maggioranza di cui dispone al Senato. Si conferma il trend manifestatosi in novembre. L’estremismo di Trump non ha pagato. L’amministrazione democratica ha perso il controllo della Camera dei rappresentanti ma ha retto all’assalto repubblicano smentendo la regola secondo cui le elezioni di midterm puniscono duramente il partito del Presidente in carica. Nessuno dei candidati estremisti imposti da Trump al partito repubblicano è stato eletto. Dopo la sua sconfitta nelle elezioni presidenziali del 2020 e il traumatico assalto a Capitol Hill del gennaio 2021, gli anticorpi presenti nella democrazia americana si sono messi in moto e stanno potentemente ridimensionando l’estremismo trumpiano e la sua carica eversiva. Ricordiamo, a conferma della solidità delle istituzioni americane, anche tutti quei governatori ed altri esponenti del partito repubblicano che rifiutarono di avallare il tentativo di Trump di annullare il risultato delle elezioni presidenziali. Le democrazie non sono mai completamente al riparo da tentativi eversivi.
Nelle antiche repubbliche il pericolo era rappresentato da generali vittoriosi in guerra. Oggi possono essere solo magnati dotati, oltre che di ricchezza, anche di capacità demagogiche, a tentare di imporre soluzioni cesaristiche. È interessante notare che costoro possono essere sconfitti se vengono contrastati, non da un estremismo di segno opposto, ma da una politica moderata capace di mobilitare gli elettori contrari all’avventurismo politico.
Il ridimensionamento di Trump è una buona notizia non solo per gli Stati Uniti. Lo è anche per le democrazie europee. Perché la sua vittoria, nel 2016, nella democrazia-guida del mondo occidentale, contribuì alla crescita di movimenti estremisti in Europa. Essi erano nati per ragioni che avevano a che fare con la vita interna delle democrazie europee ma ricevettero comunque una forte spinta dalla presidenza Trump e dalle sue politiche.
Cesarismi a parte, le democrazie oscillano, a seconda delle circostanze, fra fasi in cui prevale l’una o l’altra estrema e fasi in cui prevale la politica moderata di forze centriste. Si noti anche che se le elezioni sono vinte da una forza estrema essa, per mantenersi al potere, deve per lo più governare ammainando molte delle bandiere estremiste che agitava prima di vincere le elezioni. Nei casi (drammatici, ma fortunatamente abbastanza rari) in cui il centro politico si svuoti e restino in campo solo gli estremisti, allora la democrazia può correre rischi assai seri. Si immagini una Francia post-Macron, in cui le forze dominanti siano rappresentate solo dalla destra di Marine Le Pen e dalla sinistra di Jean-Luc Mélenchon. A quel punto, bisognerebbe interrogarsi sulla tenuta della democrazia francese.
Le fasi in cui la democrazia esibisce maggiore stabilità sono quelle dominate da forze centriste. E si capisce perché: sono le forze che dispongono della flessibilità necessaria per stipulare i compromessi senza i quali non si governano le nostre società complesse.
C’è in questo anche un insegnamento per l’Italia. La nostra è forse, fra tutte le democrazie occidentali, la più «difficile». Lo testimonia il quarantennio di democrazia bloccata, con la Dc sempre al governo e il Pci sempre all’opposizione. Anche se si cerca di parlarne il meno possibile quel passato influenza il nostro presente.
Consideriamo solo il periodo più recente. Con le elezioni del 2018 ci fu un drammatico indebolimento delle forze centriste e la vittoria di quelle estreme (maggioranza relativa ai 5 Stelle). Si formò uno dei governi più estremisti della nostra storia: il Conte 1 in mano a 5 Stelle e Lega. Ma durò solo un anno. Il Conte 2 (5 Stelle più Partito democratico) che gli succedette si formò con le modalità trasformistiche che sono proprie della nostra tradizione. Il cambiamento di maggioranza comportò però uno spostamento verso politiche più moderate. È seguita la fase, imposta dall’emergenza pandemica, della tregua e della decompressione con il governo Draghi.
L’attuale governo è guidato dalla leader di un partito che viene dall’estrema destra ma è indubbio che Meloni abbia cercato e cerchi di tenere la barra il più possibile al centro. Lo prova, nonostante le intemperanze degli alleati, oltre che la posizione sull’Ucraina, una finanziaria che, sia pure con qualche sbavatura, è in evidente continuità con le politiche del governo Draghi, e un rapporto con Bruxelles che, grazie anche ai buoni uffici del presidente della Repubblica, non è al momento conflittuale. Lo prova pure la posizione del governo sulla giustizia. Nonostante il tentativo dell’Associazione Nazionale Magistrati e dei suoi tanti amici di far passare il ministro Nordio per un estremista, non c’è nulla nelle posizioni espresse dal ministro che non sia ancorata alla concezione liberale dello Stato di diritto. Ci sono, è vero, le tensioni con la Francia sull’immigrazione. Dureranno fin quando non si troverà un accordo europeo che tuteli i diversi interessi.
L’insegnamento riguarda anche quello che al momento (ma fino a quando?) è ancora il maggiore partito di opposizione, il Pd. La tentazione di inseguire i 5 Stelle è evidente e fortissima. In coincidenza con la volontà di prendere le distanze dalle ragioni fondative del Pd, accusato oggi (nientemeno) che di «neo-liberismo» da alcuni intellettuali (ma anche da certi capi-corrente). Dietro a tutto ciò si intravvede la nostalgia per la «vocazione minoritaria», per i bei tempi in cui il partito comunista era relegato in permanenza all’opposizione. Allora ci si poteva sentire puri e moralmente integri: non c’era il rischio di doversi sporcare le mani con i compromessi che impone l’attività di governo. Il Pd è a un bivio. Può ribadire la sua volontà di essere una forza capace di contendere credibilmente il governo alla destra, oppure può scegliere la strada opposta: combinare il partito degli amministratori in periferia e quello del movimentismo (alla Mélenchon) al centro. Con scarse probabilità di sconfiggere l’attuale maggioranza alle prossime elezioni.
Le democrazie funzionano al meglio quando prevale la moderazione e la politica del compromesso. In quelle fasi possono anche diventare piuttosto noiose. Difficile che capiti anche a noi.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *